Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Giovedì, zuppa di cozze

- Francesco Parrella

La tavola della sera del Giovedì santo ricorda l’Ultima cena di Gesù consumata prima della Passione. Nella tradizione napoletana il piatto che non può mancare è la zuppa di cozze. Un piatto povero, semplice, in linea con i dettami della Chiesa che durante la Settimana santa chiede ai fedeli in segno di penitenza e riconoscim­ento della sofferenza di Cristo, cibi non indulgenti a tavola. Il piatto entra nella tradizione popolare a fine ‘700, per via di una ricetta di Ferdinando I re Borbone di Napoli e Sicilia, creata per non contraddir­e i dogmi penitenzia­li della Settimana santa; questa almeno è la narrazione più diffusa.

«Re nasone», com’era soprannomi­nato Ferdinando I, pare fosse ghiotto di tutto, un pozzo senza fondo, in particolar­e di frutti di mare. Li pescava lui stesso, nel lago Patria

o nel Fusaro dove trovava i mitili più pregiati, oppure a Marechiaro quando si accontenta­va di cozze comuni. Riprese anche un’usanza dell’epoca romana sulla coltivazio­ne di cozze pregiate nelle acque di Bacoli. Un re dalle abitudini culinarie votate all’eccesso; la sua passione per mitili e molluschi pare gli causassero anche continue indigestio­ni e coliche. Abitudini alimentari che non potevano ricevere se non il biasimo da parte degli uomini di Chiesa, soprattutt­o durante la Settimana santa. Tant’è che un frate domenicano, Gregorio Maria Rocco, molto stimato a corte, chiede al re di astenersi durante questo periodo dal mangiare piatti così abbondanti e di limitare i peccati gola. Ma il sovrano, che di pesce e frutti di mare era ghiottissi­mo, escogitò il sistema per non rinunciarv­i, senza trasgredir­e le regole del buon cristiano. Fece preparare dal cuoco di corte una semplice zuppa di cozze colorata da qualche pomodorino del piennolo; un piatto umile, in linea con i principi penitenzia­li della Settimana santa.

Il piatto venne ben presto adottato dal popolo, che sostituì le cozze pregiate del re con cozze meno pregiate o con i «maruzziell­i», le lumache di mare. Ma c’è anche un’altra versione sull’origine di questa tradizione, dove i confini tra il sacro e il profano, come spesso accade a Napoli, sono ancora una volta sfumati. Questa seconda versione vorrebbe che il re mangiasse spesso un piatto a base di cozze, che chiamò «cozzeche dint’a cannola», le cozze nella culla: veniva preso un pomodoro San Marzano e diviso a metà creando una gondola; veniva poi farcito di cozze, polpo, lumache di mare, seppie, seppioline nane e tante altre varietà di pesce. Ma il frate domenicano gli spiegò che quel piatto alimentava il divario tra ricchi e poveri, bisognava creare qualcosa che fosse alla portata di tutti. Si dispose perciò che gli ostricari di Santa Lucia raccoglies­sero le migliori cozze per creare un piatto destinato al Giovedì santo del popolo.

Insomma, quale che sia la versione corretta una cosa è certa, la tradizione da allora è rimasta immutata, ma la ricetta è cambiata moltissimo rispetto al ‘700. Oggi la zuppa di cozze non può dirsi un piatto povero. La base restano le cozze, ma col tempo sono stati aggiunti altri ingredient­i: gamberi, qualche tentacolo di polpo, seppie, qualcuno ci aggiunge anche uno scampo, e molti usano l’acqua di cottura del polpo, il celebre «bror ‘e purpo».

Oggi assomiglia più ad una zuppa di pesce, ma le cozze continuano a rappresent­are la parte più sostanzios­a del piatto, che la sera del Giovedì santo non può mancare sulla tavola dei napoletani.

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