Corriere del Mezzogiorno (Campania)
SCUOLA, PIÙ LIBERTÀ AL DOCENTE
Cosa deve fare un docente per svolgere appieno il suo lavoro? Le prime risposte le ho tentate da bambina, quando in classe mi sentivo esclusa. Ero arrivata da un altro paese, ma conoscevo l’italiano, visto che i miei genitori erano italiani. Solo che a casa avevamo l’abitudine di parlare in italiano o in bisiacco, perciò quando venni catapultata in quel dialetto ostico, il puteolano, poiché le mie compagne di classe parlavano tra loro solo in dialetto, mi sentii assediata da voci e gesti esagerati e senza senso, e mi appartai, allontanandomi da qualsiasi risata o complicità o condivisione. Fui soprannominata «la ‘mmericana» e la storia finì lì. La maestra non se ne preoccupò, ma avrebbe dovuto, perché io avevo un disagio.
Ovviamente non potevo neanche sospettare che quella esperienza mi sarebbe servita da adulta, perché avevo precocemente imparato quello che ogni insegnante sa: pur avendo a disposizione spazi e tempi comuni, l’integrazione stenta a decollare senza un linguaggio comune.
Sono perciò convinta da sempre che i docenti debbano, prima di ogni cosa, porre la massima attenzione agli ostacoli comunicativi tra alunni e tra loro stessi e gli alunni. Ostacoli dovuti a tutta una serie di situazioni e che vanno superati, perché se il capire è il viatico nello studio, il capirsi rende fluide le dinamiche relazionali e queste contribuiscono a produrre lo «star bene», che, di ritorno, aiuta a capire.
Il lavoro del docente è, dunque, delicato assai, perché si è in allerta continua, non si vuole sbagliare, si è consapevoli che un errore può compromettere parte di una vita.
Ma cosa può fare davvero il docente? Quali poteri ha all’interno della sua classe? Ovviamente sua è la responsabilità di veicolare i saperi e di costruire un clima inclusivo, aperto, accogliente e suo è il rapporto coi ragazzi. Ma per il resto? O, meglio, il prima e il dopo che gli permette di costruire il proprio lavoro è frutto di scelte davvero libere?
Ebbene, a mio avviso, il docente non ha praticamente più facoltà di decidere da solo, neanche in merito a un cambio di metodologia in corso d’opera, se non informa preventivamente le varie parti del sistema dirigista nel quale è inserito. Si trova ingabbiato in registri elettronici, pianificazioni programmate, consigli di classe e di interclasse, libri di testo scelti e colloqui con le famiglie, senza poter sterzare repentinamente, pure se si accorge che il tunnel che è stato stabilito di dover percorrere è solo disegnato sulla roccia. Viene messa sotto la lente di ingrandimento qualsiasi digressione non prevista, qualsiasi critica dei genitori, arrivando alla «criminalizzazione» per una eventuale richiesta di nulla osta per trasferimento da parte degli alunni. La demotivazione è dietro l’angolo, così come il desiderio di evitare problemi e fare solo ciò che è definito. Ho l’impressione che, dalla fine degli anni Novanta, il senso dell’articolo 33 della Costituzione che recita l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento, abbia una interpretazione più metaforica che reale, se riferita all’insegnante.
Diciamo che le responsabilità sono divise, a volte questo solleva ed è dunque un bene, tra chi fa le leggi e chi le applica, tra lo Stato e la Regione, tra la scuola e il collegio docenti, tra il consiglio di classe e il singolo docente, ma, dall’altra, le corresponsabilità funzionano come i mucchi di fieno per l’asino di Buridano e questo è un male.
Di sicuro con più di un quarto di secolo di autonomia scolastica, la nostra scuola non ha fatto salti da gigante e l’Invalsi ce lo ricorda spesso. A me pare che le scuole siano più attente a ciò che si deve fare piuttosto che occuparsi di ciò che si può. L’autonomia ha liberato le scuole da un giogo fatto di omologazione a livello nazionale, ma ha imposto tali e tante regole da creare un giogo di omologazione all’interno di ogni scuola, a scapito dei docenti. I dirigenti scolastici, sempre più forti, impongono scelte a dei collegi sempre più deboli, e dettano una linea da cui è difficile allontanarsi. I professori accolgono le richieste e abortiscono la libera e individuale ricerca metodologico-didattica, tanto complesso è l’iter di approvazione. In definitiva, seppure la cosa non sia vietata e anzi a parole venga richiesta, è raro che qualche iniziativa parta dal basso. E così la scuola, con la ricerca monca e l’autonomia finanziaria zoppa, alla fine si avviluppa in sé stessa, in un’autonomia organizzativa che amministra, coordina e disciplina, sfornando moduli.
Forse abbiamo dimenticato che lo star bene degli alunni passa anche attraverso lo star bene dei docenti e questi, a dirla tutta, non hanno da stare allegri così poco gratificati da bassi stipendi e così tanto mortificati dalla difficoltà a sviluppare le peculiarità della propria professione.
È mia personale convinzione che il primo passo per migliorare la nostra scuola sia proprio quello di scardinare la struttura gestionale verticistica delle scuole e, dunque, di rimodulare la normativa, cominciando proprio dall’autonomia organizzativa, ridiscutendo quelli che furono i Decreti Delegati, rivedendo il ruolo del dirigente e degli staff, dei docenti e delle famiglie, liberando le opportunità di ricerca didattica di ogni docente, dando un ruolo più incisivo e propositivo al collegio docenti. E tanto altro ancora. Confesso di essere pessimista. Ridiscutere i criteri del Pnrr in Ue credo sia stata una passeggiata, al confronto.