Corriere del Mezzogiorno (Campania)
L’accordo più riuscito
Alberto aveva trascorso il capodanno a Firenze. Con lo stesso tedio appiccicoso, con la stessa quieta disperazione che in un racconto di Cechov. Per Alberto, del resto, Firenze, Parigi o l’Umbria sotto la neve con San Francesco e il lupo si equivalgono. Il punto è che lui ha sempre avuto in in odio queste feste comandate, lo rimandano alla matrice della sua infelicità. Vale a dire la famiglia d’origine. In occasione delle festività canoniche – Natale, Pasqua, Capodanno appunto – lui delega alla famiglia che è stato capace di costruirsi. Un castello di carte ancora in piedi grazie a dei micro-equilibri che prescindono da lui, garantiti da sua moglie e dalle due figlie. Alberto vive con loro, ma non per loro. Così ritiene sua moglie, quantomeno.
«Tu sei innamorato solo di una cosa: la tua depressione», così gli aveva sibilato lei, una volta. Annalisa e l’occhiata profonda, definitiva con cui, quella volta, lo aveva radi diografato. Ancora oggi, quando ci ripensa, Alberto non può nascondere l’ammirazione per la capacità diagnostica e di sintesi sfoderata dalla moglie, in quella circostanza. Quanto alle sue figlie – Ludovica e Anna, per sempre Annina – all’epoca erano ancora abbastanza piccole. Proprio perciò l’attenzione delle due piccole volpi si conservava vigile come un radar animale, quando erano in ballo le discordie fra i genitori (quell’armistizio che rimandava ad un conflitto latente, non dichiarato e, dunque, inestinguibile). Nell’infanzia delle due piccole, una separazione fra Alberto e Annalisa aveva rappresentato il pericolo supremo. Ancora oggi, Alberto non riesce a liberarsi da questo ricordo che, di tanto in tanto, guizza nel campo della sua coscienza. Un giorno parlava con Annina spaventi, lupi, mostri. Insomma, gli abitatori che pullulano nelle fantasie infantili e che lui si ostinava a voler razionalizzare e smontare, dentro la testa delle figlie. Così lui aveva chiesto ad Annina: «qual è la cosa che ti fa più paura? Più di tutte».
Voleva stanare il Grande Babau della piccola, quindi neutralizzarlo per sempre. Lo sguardo della bambina si era fatto liquido, per un istante. La risposta, però, non aveva avuto esitazioni.
«Che papà non vuole più bene a mamma», spiandolo da sotto in su. Alberto si era sentito ghiacciare il sangue. All’età di Annina, in effetti, lui era stato visitato di continuo dall’identico terrore. Una specie di vuoto dopo il crollo di un ponte. La morte, per come può pensarla l’infanzia. Così Alberto fa il possibile per mostrarsi accomodante, nel quotidiano. Così lascia fare, senza alcuna calore, alle capacità organizzative di Annalisa. A Capodanno bisogna pure fare qualcosa, cosicché lui aveva trascorso gli ultimissimi giorni di dicembre a Firenze, con due terzi della famiglia. All’appello mancava solo Ludovica, oramai ventenne, che si è unita a dei compagni di corso, in montagna. Annina, impavida, era pronta anche da sola a fare da paciere tra papà e mamma. E a catalizzare quanto resta di buono fra i genitori.
Buono non era stato di sicuro il meteo. La sera del trenta piovigginava e Firenze sembrava particolarmente tetra nei suoi palazzi nobiliari, con le grate al piano terra memori di congiure, rivolte, assassini. Pesanti goccioloni sulle cerate dei rider, piegati in due sui manubri. Il loro sfrecciare tra gli stop delle auto, riflessi dall’asfalto lucido. Il giorno successivo tregua, almeno nell’alto dei cieli. Il che aveva consentito poco dopo la mezzanotte, in piazza Santacroce, quel programma all’aperto di valzer e ballabili viennesi. L’orchestra ingaggiata dal Comune era ucraina. Una trentina di elementi dall’aria raccogliticcia e i volti provati, come delle truppe dopo una rotta. Probabilmente la guerra li aveva tagliati fuori dalla madrepatria o costretti a fuggire all’estero, da un giorno all’altro. Il direttore aveva un’aria tardo-ottocentesca, con quel frac liso. Alto, ampio di ventre, i capelli arruffati e i baffoni, cerimonioso per dissimulare la disperazione come un personaggio di Cechov. Alberto, così come il resto del pubblico in piazza, aveva simpatizzato all’istante per lui e i suoi orchestrali. Il fatto è che la geopolitica, i giochi strategici tra Imperi, le logiche delle relazioni internazionali sono dei potenti schemi teorici per spiegare la realtà. Quella trentina di strumentisti mal rasati erano la realtà: quella fatta di carne, sangue, smarrimento, nostalgia. Alberto e il resto della piazza l’avevano intuito prima ancora di pensarlo, tutti premevano con il loro affetto su quell’orchestra da Titanic. Anche Annina, che applaudiva convinta nonostante quei ballabili dovessero sembrarle come dei fossili. La musica, d’altra parte, in quel contesto giocava un ruolo puramente secondario. Bastava guardarsi intorno: solo un pretesto per tracannare il resto dello spumante, battere a tempo le mani, festeggiare in qualche modo e a tutti i costi.
«Festeggiare cosa?», si ripeteva Alberto, «Cosa diamine festeggiamo ogni 31 dell’anno?».
Nel suo fastidio includeva la moglie e Annina – le uniche due astemie – unite nel sincronizzarsi agli applausi ritmati, all’orchestrina che cercava di suonare a tempo, all’uomo sul podio sempre più sentimentale e istrionico. Tutto, insomma, procedeva sul filo del non-sense, artificioso come può solo un ultimo dell’anno. Dopodiché, all’improvviso, non lontano da Alberto aveva cominciato a formarsi un vuoto. Capita, negli assembramenti, quando iniziano a mulinare i pugni di una scazzottata. In quel caso, però, il vuoto somigliava a un piccolo vortice, disegnato da un movimento più aereo. Si trattava di due ballerini improvvisati. Un uomo e una donna: l’inizio e la fine del mondo, l’alfa e l’omega di ogni cosa. Una coppia mista: lui caucasico sui quaranta, lei un’orientale più giovane. Francesi? Di sicuro era stato lui a trascinare la compagna, a guidarla nei passi di danza che aprivano e spostavano il loro piccolo spazio circolare nella folla. I presenti sembravano compiaciuti, diversi li riprendevano con la fotocamera. La stessa esecuzione sul palco, grazie a loro, prendeva slancio e senso. Alberto non aveva potuto fare a meno di invidiarli, i danzatori. «Inizieranno il 2024 facendo l’amore…», il suo borborigmo mentale. Fortuna che Annina gli aveva poggiato la testa sul braccio, quella ragazzina capiva tutto, finanche troppo. Poi il valzer aveva sollevato la piazza sull’accordo finale. La coppia si era abbracciata, ansante, mentre gli orchestrali si guardavano increduli. Non avevano mai suonato così bene.
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