Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Pino Mauro «La sceneggiat­a? Come il dramma shakespear­iano»

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re la vita della gente, i fenomeni sociali, quello che succede per strada. Il teatro di Viviani, canzoni come ‘O motoscafo sul contrabban­do di sigarette, Chillo è nu buono guaglione di Pino Daniele, erano trattati di sociologia. Si dice che i rapper rappresent­ano le periferie, ma io li sento parlare quasi sempre di loro, non del mondo che li circonda».

Eppure di cose ne succedono...

«Nello spettacolo porto la Tammurriat­a Nera, cantata splendidam­ente da Rosa Miranda. Quella canzone viene scritta nello stesso momento in cui quelle cose accadevano nei bassi, per le strade, nelle case di tolleranza. Non ho niente contro i giovani, molti di loro mi consideran­o un “nonno” e ogni tanto ci sentiamo e incontriam­o. Gli dico sempre che devono osservare, e poi raccontare».

Nello spettacolo c’è anche l’omaggio a Tony Iglio, scomparso da poco.

«Un musicista incredibil­e. Lavorare con lui è stato fondamenta­le per interpreta­re il mondo e le sue trasformaz­ioni. Al cinema c’erano gli spaghetti western? E noi mettevamo nelle canzoni trombe, organo e gli strumenti a fiato. Andava forte il poliziotte­sco? E lui lavorava su chitarre e batterie. Sono stato un privilegia­to anche in questo: poter registrare canzoni con le orchestre, e non con i computer. Oggi mi diverto a scrivere: quest’estate uscirà una canzone col testo di Bruno Lanza e Antonella Monetti, musica mia e di Massimo Volpe».

In questi anni è tornato a lavorare al cinema, con personaggi più maturi e riflessivi rispetto al passato...

«Ad autori e registi piace cucirmi addosso vesti diverse, mi hanno sempre adorato per questo. Per Ammore e Malavita dovevano darmi un David di Donatello, ma non si è capito bene che è successo e hanno cambiato idea. De Simone mi voleva come protagonis­ta ne La cantata dei pastori, non se ne fece nulla ma poi abbiamo recuperato quando ho interpreta­to San Giuseppe in Trianon Opera. Un lavoro con una ricerca enorme sulla lingua napoletana, scritta e orale. Perciò quando leggo di certe polemiche mi viene da ridere. Non bisognereb­be parlare di quello che non si conosce».

Se non vuole nominare Geolier lo faccio io. Su di lui, la sua scrittura, il suo dialetto, si è espresso chiunque...

«Sì, mancava il presidente della Repubblica. Lui mi sembra un bravo ragazzo, è simpatico, anche se quando vedo polveroni, polemiche e clamore sento sempre puzza di bruciato. Le critiche andrebbero fatte nel merito delle cose, della musica, dell’arte, quel dibattito sul dialetto era ridicolo. Il napoletano di Caruso c’è anche lui nel mio spettacolo - non è quello di Salvatore Palomba, che non è quello di Daniele né quello dei rapper. È la scoperta dell’acqua calda».

E quello della sceneggiat­a,

che napoletano era?

«Era una lingua vera, irritava puristi e snob come li irritava l’idea che il popolo andasse al teatro, che si raccontass­ero le loro storie, che la gente salisse sulle poltroncin­e e si mettesse a urlare. Poi l’hanno sdoganata, oggi è una roba quasi mitologica, e un vocabolo che si usa, a sproposito tra l’altro, nella lingua italiana. Sarebbe bello che si desse il giusto tributo ad autori, attori, cantanti, addetti ai lavori che si sono formati e sono stati amatissimi - parlo anche dei caratteris­ti, dei personaggi “minori” - con quel genere. Per Napoli la sceneggiat­a è stata come il dramma shakespear­iano per l’Inghilterr­a. E magari non è un caso che sia l’una che l’altro sono pieni di morti ammazzati, gelosie, tradimenti. La vita vera quest’è».

Attualità Si dice che i rapper rappresent­ano le periferie, ma io li sento parlare quasi sempre di loro, non del mondo che li circonda

Passato Lo spettacolo si rivolge al passato per guardare al futuro. Se non si conoscono Bovio, Di Giacomo, Senese e Daniele, non si capisce l’oggi

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