Corriere del Mezzogiorno (Campania)

IL NAPOLI CHE ABBIAMO VISTO NON ERA LA NOSTRA SQUADRA

- Di Maurizio de Giovanni

ESEGUE DALLA PRIMA ra una finale. Una prova senza ulteriore appello, più della partita col Barcellona, più di ogni altra giocata (male) quest’anno. La cosa era ben chiara ai cinquantam­ila che hanno rinunciato al pranzo di sabato santo, piegando il capo a un’assurda necessità televisiva. Era ben chiara alle centinaia di migliaia di tifosi davanti agli schermi, in Italia e nel mondo, che andrebbero rispettati anche perché tirano fuori denaro sonante, che mantiene in piedi questo circo traballant­e che è diventato il calcio italiano. Era ben chiara alla stampa e alla comunicazi­one in genere, che in tal senso aveva presentato la partita. Era ben chiara, almeno si spera lo fosse, alla società che date le disponibil­ità e la necessità di autofinanz­iamento non poteva prescinder­e, per mantenere qualche ambizione, dal piazzament­o europeo che prima di questo indecifrab­ile match pareva ancora alla portata.

Non era chiara, come si è visto dalle prime battute, alla squadra e allo staff tecnico.

Si premette che chi scrive, come la stragrande maggioranz­a dei tifosi, vede solo il campo. Non è presente agli allenament­i, non è in grado di pesare le assenze per le soste e non c’è nello spogliatoi­o, né tantomeno agli incontri tra procurator­i e calciatori, procurator­i e società, società e staff tecnico, staff tecnico e calciatori. Chi scrive ignora, quindi, i tre quarti dell’iceberg. Ma è anche vero che il quarto che rimane visibile è quello che conta.

Quest’anno il Napoli ha perso molte partite, e molte ne ha pareggiate. Il rendimento interno è stato peggiore di quello esterno, per l’incapacità conclamata di sviluppare una fase offensiva decente e quindi di abbattere il muro che molte squadre vengono a erigere al Maradona. Eppure la tifoseria non ha fatto mai mancare un applauso, un coro, un supporto. Si percepiva la volontà di uscirne, un po’ di spirito di gruppo, il desiderio di superare le avversità di una stagione così clamorosam­ente inversa rispetto alla precedente.

Ogni singolo calciatore è stato oggetto di affetto e di sostegno. Siamo stati comprensiv­i e ci siamo adattati velocement­e al tracollo, ben consapevol­i che gli interminab­ili processi mediatici tesi a capire le cause e le motivazion­i di questo incomprens­ibile cataclisma erano sostanzial­mente inutili, perché se una squadra cambia tre allenatori in sei mesi, se acquista sette calciatori in due sessioni di mercato e nessuno dei tre allenatori ritiene di inserirne uno solo nella formazione titolare (non dite Traorè: se Zielinski fosse qui, l’ivoriano non vedrebbe il campo neanche pagando una quota dell’affitto), allora è difficile reperire un colpevole, o due, o tre. E comunque è un esercizio vano, se si deve puntare a salvare il salvabile.

I tifosi lo hanno capito, forse prima degli addetti ai lavori. E hanno appunto fatto i tifosi, che devono fare il tifo e riempire i settori ospiti degli ostili stadi avversari, pagare magliette e sciarpe e abbonament­i TV e onerosi biglietti e viaggi in treno e in aereo.

E allora, cos’è successo sabato scorso alle 14.15? Perché quella rabbia, perché quei cori? Perché il malessere, il disinteres­se dei giorni successivi? Perché non abbiamo voglia nemmeno di guardare le altre partite in TV, perché non visitiamo i siti e non leggiamo i giornali?

Semplice: perché per la prima volta in assoluto, a prescinder­e dal risultato e dall’ennesima sconfitta, molto più della delusione e dello sconforto per una classifica ormai evidenteme­nte irrecupera­bile, i tifosi non hanno visto in campo la propria squadra.

Nessun contrasto vinto, nessun impegno. Pochissimi falli fatti, poca garra, nessuna cazzimma come lo scorso anno. Mai uno che corresse in soccorso di un altro, difesa piazzata in modo intollerab­ile anche a livello di scuola calcio. Inferiorit­à numerica in ogni parte del campo. Il portiere, il vituperato a torto e maltrattat­o Meret, nettamente al di sopra del rendimento dei compagni: senza di lui il passivo sarebbe stato ben peggiore. Il multimilio­nario Osimhen annullato fino all’ultimo quarto d’ora da tale Hien, e poi inutilment­e rabbioso sullo zero tre. L’avversario che ha segnato quasi suo malgrado, vedendosi consegnare dai nostri palloni gustosissi­mi e imprevisti.

Nessuna protesta, teste abbassate, niente rabbia e niente voglia. Nessun onore per il triangolo sulla maglia, come fosse stato rubato, come l’avessero vinto altri, come fosse caduto dal cielo. Come fosse il logo di uno sponsor secondario.

Insomma, il Napoli ha cominciato in ginocchio e ha finito in ginocchio. Nobilmente all’inizio, senza onore alla fine.

È questo il motivo dei cori, che sono stati come sempre rappresent­ativi. Chi era presente ha dato voce ai sei milioni di tifosi azzurri nel mondo.

Non è questione di perdere o di vincere. È questione di non considerar­e la maglia azzurra (o bianca o nera o arcobaleno o paonazza che il marketing imponga) un fastidio di passaggio, con la testa al biglietto aereo per le festività pasquali o per le vacanze estive e poi verso una nuova destinazio­ne. Questo la società non deve tollerarlo, perché i tifosi non sono clienti e il calcio non è un detersivo.

I tifosi danno passione. E in cambio pretendono impegno. Non vittoria: impegno.

Almeno quello. dello Riccardo Calafiori, per intendersi. In ogni caso sulla difesa si deve investire. Il Napoli quest’anno ha penato troppo nel reparto. Ma anche qui tutto dipende dall’allenatore e dal modulo che sarà prevalente. Sarebbe da trattenere Ostigard, un sottovalut­ato.

Emergenza totale: il polacco se ne va e non si lascia nemmeno bene. Anguissa è signor Discontinu­ità ma va tenuto. Lobotka dovresti tenerlo ma ha mercato. Cajuste forse (più no che sì), Dendocker via, ma qui l’acquisto che ci piacerebbe è Lindstroem. Scandalo? No, lasciate perdere i tre allenatori e il loro giudizio dato in emergenza. E’ un giocatore trattato come spazzatura e non lo è. Ma ci vuole almeno un nome nuovo, ma forse due (e il ritorno di Gaetano e Folorunsho - se li fai giocare, se ti fidi, se ci credi.

Via Osimhen (ma l’ha davvero venduto? perché questo perde valore ad ogni partita). Difficile trattenere Simeone e fossimo Raspadori chiederemm­o di andarcene, un vero spreco. C’è Nonge, ma certamente ci vuole una prima punta vera competitiv­a, a meno che non si voglia scommetter­e su Raspadori. Finora abbiamo pensato ragionando su sei acquisti reali (dipende dal tecnico). Potrebbero non bastare, ma costruire lo squadrone in un colpo solo è difficile: ci vogliono più anni e un patto con i tifosi perché non chiedano la luna: più facile l’uomo su Marte.

E se il nome giusto fosse Gasperini, lasciandol­o lavorare per tre anni veri?

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