Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Palazzo d’Angiò, il cuore del cuore di Napoli
Insomma, un po’ di storia di Napoli è passata sotto quelle arcate e in quelle stanze. Adesso è irriconoscibile (in verità lo è da decenni) anche perché non è curato almeno esternamente. Il cortile interno s’è ristretto. Solo all’esterno resta qualche segno degli antichi splendori: uno stemma araldico e una piccola Madonna affrescata in una edicola votiva scavata nel muro. Il resto sono pizze e rosticceria. Un amaro destino per uno dei palazzi più antichi della città, forse il più antico di quelli superstiti.
Ma non è questione di primati, piuttosto di salvaguardia della memoria e della bellezza di Napoli. Filippo d’Angiò era uno dei figli di Carlo II lo Zoppo, fratello di re Roberto. Il titolo di Imperatore di Costantinopoli gli venne da un matrimonio, ma a Costantinopoli non imperò mai. Era uno dei tanti titoli che facevano curriculum e accumulo di fatue pretese dinastiche. La vasta e prolifica famiglia angioina colonizzò architettonicamente gran parte della città, fuori e dentro le mura. Edilizia privata e pubblica, ma anche grande edilizia religiosa. L’elenco delle chiese edificate (o goticamente trasformate) nel periodo angioino (dal 1266 fino alla metà del Quattrocento) è lungo: Sant’Eligio, San Lorenzo Maggiore, Donnaregina Vecchia, Santa Chiara, San Giovanni a Carbonara, San Pietro a Majella, lo stesso Duomo e ancora altre. La città cominciò a cambiare volto con l’arrivo del mutrioso e devotissimo Carlo d’Angiò, campione della fazione guelfa, battagliero e silenai zioso, passato alla Storia (e vituperato dalla pubblicistica ghibellina) solo per aver fatto decapitare il giovane Corradino di Svevia.
Tutto il centro antico, che da tempo è stato rinominato con il nome greco-romano di Decumani, fu vivificato, per renderlo degno del nuovo status di capitale che proprio con gli Angiò fu assegnato a Napoli. Prima la città era stata un piccolo e agguerrito Ducato, dopo fu inglobata nel vasto regno normanno-svevo ed era solo una media città nella periferia settentrionale del regno che aveva come capitale Palermo. Alla raffinata dinastia franco-provenzale non piacque la residenza regale ereditata dai normanni, il fortilizio di Castel Capuano e così misero mano a Castel Nuovo, fuori le mura, che prima del rimaneggiamento degli Aragonesi, aveva un aspetto molto più simile castelli e alle nobili residenze d’Oltralpe.
Proprio Castel Nuovo (come si è ripreso a denominarlo ufficialmente) conserva una memoria toponomastica che ricorda la dinastia di Carlo I, di Roberto, delle due allegre Giovanne e del conquistatore Ladislao: dall’Ottocento è popolarmente chiamato il Maschio Angioino, raro segno, come i ritrovati Giardini di re Ladislao (a via Carbonara), di rispetto per la dinastia che non solo ha reso Napoli una capitale, ma che ha regnato più a lungo di tutte le altre, più degli Aragonesi e più dei Borbone. È che su di loro è calata come una scure la damnatio memoriae. Troppo odiati nei secoli della loro potenza (nel Mediterraneo e non solo nell’Italia frammentata in repubblichette, ducati e contee), troppo trascurati da una storiografia orientata verso il facile mito di una Napoli dominata dagli stranieri. Quando poi, invece, chiunque è venuto da fuori (Borbone compreso), nel giro di pochi decenni, preso dagli incanti della sirena Partenope, si è napoletanizzano più di qualsiasi indigeno.
Napoli agli Angioini non ha dedicato una strada o una piazza che si rispetti. Tutto, è vero, con l’Unità d’Italia è stato rinominato secondo l’epopea risorgimentale. Con la beffa di intitolare una piazza a Carlo di Borbone con il titolo (Carlo III) che fa riferimento alla Spagna, ma non a Napoli, dove è stato il settimo (per altri il sesto) Carlo a regnare. Giusto per marcare proditoriamente una falsa estraneità a Napoli. Ai fondatori di Napoli Capitale indipendente è andata pure peggio. Li si è consegnati alla decadenza, con pietre che vengono giù persino nel Maschio Angioino o con le eterne impalcature che sorreggono il palazzo dell’Imperatore di Costantinopoli. Si rende omaggio solo alla pizza fritta. Da non disprezzare, comunque.