Corriere del Mezzogiorno (Campania)
I RISCHI DELLA
Dove va la democrazia italiana? La riforma Meloni introduce nel nostro ordinamento una forma assai spinta di democrazia maggioritaria con elezione diretta del Capo del Governo, in uno con i parlamentari, che non ha eguali nelle democrazie più avanzate del mondo perché riduce il Parlamento ad appendice del Governo. Alla coalizione vincente si attribuisce il 55% dei seggi. Una norma del tutto illiberale. Infatti il 55% significa 330 seggi e, con questi numeri, si elegge il Presidente della Repubblica dal quarto scrutinio in poi. Non solo, il Presidente, cosi eletto, da una maggioranza politica precostituita, nomina 5 (su 15) membri della Corte Costituzionale. Il Parlamento, a sua volta, elegge altri 5 componenti con i 2/3 dei voti nei primi tre scrutini e con i 3/5 dal quarto scrutinio. È evidente che una maggioranza forte di 330 seggi è molto vicina al quorum di 360 seggi utili per eleggere altri 5 membri della Corte.
Avremmo dunque un Capo dello Stato «di parte» ed una Corte non indipendente. Lo squilibrio derivante dall’offuscamento degli Istituti di Garanzia accresce i tratti illiberali di questa riforma. Non ci troviamo quindi di fronte a un «neoparlamentarismo» come ha di recente sostenuto il professore Frosini, ma piuttosto ad una forma spinta di plebiscitarismo che mina l’Istituto parlamentare e l’essenza della democrazia politica. Sabino Cassese ha scritto che il Governo «comitato direttivo della maggioranza» con il suo massiccio ricorso alla decretazione ha sostituito la sua maggioranza parlamentare; potremmo dire che con questa riforma il Governo sostituisce la funzione legislativa del Parlamento.
Esiste certo una esigenza di stabilità dei Governi, ma non c’è bisogno di una riforma così radicale che riscrive la Costituzione. Il nostro ordinamento non è vecchio. La Costituzione degli Usa, per quanto riguarda la forma dello Stato è immutata dal 1787; in Europa occidentale solo la Francia nel ‘58 ha dato vita alla V Repubblica semipresidenziale. Ma anche in Francia ci sono seri segni di crisi istituzionale con lo smottamento del sistema dei partiti, un radicalismo sociale elevato, scarsa rappresentatività del presidente, votato al primo turno solo dal 22% dei francesi.
Dovrebbero riflettere coloro che anche a sinistra propongono, in alternativa alla Meloni, il sistema francese. La crisi italiana e la lunga transizione iniziata all’inizio degli anni ‘90 hanno origine da fattori eminentemente politici e richiedono una molteplicità di risposte politiche insieme con misure di adeguamento e completamento costituzionale (sfiducia costruttiva, poteri di revoca dei ministri, modifica dei regolamenti parlamentari).
Già la elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di regione (un presidenzialismo spurio) presenta molte criticità politiche ed istituzionali, come si è visto. La spinta alla democrazia maggioritaria limita e radicalizza il confronto politico. Le liste bloccate, un bipolarismo forzato, la conseguente crisi dei partiti, anche privati del finanziamento pubblico, sono alla base dell’astensionismo, del personalismo esasperato, del vasto fenomeno di trasformismo che si esprime nelle liste personali. Queste non sono espressione di un sano civismo, ma la spia di una profonda crisi di rappresentanza che logora la democrazia italiana. Il tema della rappresentanza è molto delicato. La superiorità della democrazia proporzionale e del sistema di governo parlamentare, rispetto alla democrazia maggioritaria ed elezione diretta del governo, sta nella sua capacità di inclusione, di mediazione piuttosto che polarizzazione e rottura.
Tutto ciò non è consociativismo ma è l’essenza della democrazia intesa come «processo» e come costruzione del consenso che «è consenso in favore non solo delle politiche del governo ma anche del sistema politico del Paese» (Robert Dahl Yale,Univ. La Costituzione Americana Laterza 2003). Molti di questi argomenti sono stati il bagaglio culturale e politico del centrosinistra e sono alla base del Pd. Essi costituiscono un deragliamento dalla cultura costituzionale del Pci e della Dc. In più occasioni l’elettorato si è pronunciato su questo indirizzo politico, da ultimo, nel 2006 e nel 2016, bocciando le riforme Berlusconi e Renzi. Dunque, una riflessione autocritica si impone nel centrosinistra perché la esperienza di questi anni ci dice che la lunga transizione rischia di approdare su sponde politiche e istituzionali ben lontane dalle prospettive auspicate.