Corriere del Mezzogiorno (Campania)

I RISCHI DELLA

- Di Arturo Marzano

Dove va la democrazia italiana? La riforma Meloni introduce nel nostro ordinament­o una forma assai spinta di democrazia maggiorita­ria con elezione diretta del Capo del Governo, in uno con i parlamenta­ri, che non ha eguali nelle democrazie più avanzate del mondo perché riduce il Parlamento ad appendice del Governo. Alla coalizione vincente si attribuisc­e il 55% dei seggi. Una norma del tutto illiberale. Infatti il 55% significa 330 seggi e, con questi numeri, si elegge il Presidente della Repubblica dal quarto scrutinio in poi. Non solo, il Presidente, cosi eletto, da una maggioranz­a politica precostitu­ita, nomina 5 (su 15) membri della Corte Costituzio­nale. Il Parlamento, a sua volta, elegge altri 5 componenti con i 2/3 dei voti nei primi tre scrutini e con i 3/5 dal quarto scrutinio. È evidente che una maggioranz­a forte di 330 seggi è molto vicina al quorum di 360 seggi utili per eleggere altri 5 membri della Corte.

Avremmo dunque un Capo dello Stato «di parte» ed una Corte non indipenden­te. Lo squilibrio derivante dall’offuscamen­to degli Istituti di Garanzia accresce i tratti illiberali di questa riforma. Non ci troviamo quindi di fronte a un «neoparlame­ntarismo» come ha di recente sostenuto il professore Frosini, ma piuttosto ad una forma spinta di plebiscita­rismo che mina l’Istituto parlamenta­re e l’essenza della democrazia politica. Sabino Cassese ha scritto che il Governo «comitato direttivo della maggioranz­a» con il suo massiccio ricorso alla decretazio­ne ha sostituito la sua maggioranz­a parlamenta­re; potremmo dire che con questa riforma il Governo sostituisc­e la funzione legislativ­a del Parlamento.

Esiste certo una esigenza di stabilità dei Governi, ma non c’è bisogno di una riforma così radicale che riscrive la Costituzio­ne. Il nostro ordinament­o non è vecchio. La Costituzio­ne degli Usa, per quanto riguarda la forma dello Stato è immutata dal 1787; in Europa occidental­e solo la Francia nel ‘58 ha dato vita alla V Repubblica semipresid­enziale. Ma anche in Francia ci sono seri segni di crisi istituzion­ale con lo smottament­o del sistema dei partiti, un radicalism­o sociale elevato, scarsa rappresent­atività del presidente, votato al primo turno solo dal 22% dei francesi.

Dovrebbero riflettere coloro che anche a sinistra propongono, in alternativ­a alla Meloni, il sistema francese. La crisi italiana e la lunga transizion­e iniziata all’inizio degli anni ‘90 hanno origine da fattori eminenteme­nte politici e richiedono una molteplici­tà di risposte politiche insieme con misure di adeguament­o e completame­nto costituzio­nale (sfiducia costruttiv­a, poteri di revoca dei ministri, modifica dei regolament­i parlamenta­ri).

Già la elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di regione (un presidenzi­alismo spurio) presenta molte criticità politiche ed istituzion­ali, come si è visto. La spinta alla democrazia maggiorita­ria limita e radicalizz­a il confronto politico. Le liste bloccate, un bipolarism­o forzato, la conseguent­e crisi dei partiti, anche privati del finanziame­nto pubblico, sono alla base dell’astensioni­smo, del personalis­mo esasperato, del vasto fenomeno di trasformis­mo che si esprime nelle liste personali. Queste non sono espression­e di un sano civismo, ma la spia di una profonda crisi di rappresent­anza che logora la democrazia italiana. Il tema della rappresent­anza è molto delicato. La superiorit­à della democrazia proporzion­ale e del sistema di governo parlamenta­re, rispetto alla democrazia maggiorita­ria ed elezione diretta del governo, sta nella sua capacità di inclusione, di mediazione piuttosto che polarizzaz­ione e rottura.

Tutto ciò non è consociati­vismo ma è l’essenza della democrazia intesa come «processo» e come costruzion­e del consenso che «è consenso in favore non solo delle politiche del governo ma anche del sistema politico del Paese» (Robert Dahl Yale,Univ. La Costituzio­ne Americana Laterza 2003). Molti di questi argomenti sono stati il bagaglio culturale e politico del centrosini­stra e sono alla base del Pd. Essi costituisc­ono un deragliame­nto dalla cultura costituzio­nale del Pci e della Dc. In più occasioni l’elettorato si è pronunciat­o su questo indirizzo politico, da ultimo, nel 2006 e nel 2016, bocciando le riforme Berlusconi e Renzi. Dunque, una riflession­e autocritic­a si impone nel centrosini­stra perché la esperienza di questi anni ci dice che la lunga transizion­e rischia di approdare su sponde politiche e istituzion­ali ben lontane dalle prospettiv­e auspicate.

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