Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Un selfie contro la schiavitù
C’è il bisogno di non dimenticare, conservare memoria, rivedere lo spettacolo umiliante della volenza e percepirne il disgusto, nella speranza che l’indignazione prenda finalmente il sopravvento e risvegli quel senso della dignità e dell’autostima che dorme come uno squalo di fondo sotto la superficie della paura e dell’intimidazione.
Il lavoro psicologico da fare, e che i centri antiviolenza possono offrire, è dunque quello di risvegliare lo squalo dormiente, spingere la vittima verso la superficie e affrancarla da quella sottomissione che schiaffo dopo schiaffo, pugno dopo pugno, livido dopo livido, ha finito per accettare come condizione di una relazione sentimentale che di sentimentale non ha un bel niente, se non la bassezza d’animo di un mezzo uomo che alza le sue mani impotenti su chi non si difende. Basta denunciare. Superare la prima paura che attanaglia la vittima, che è precisamente quella della denuncia. Quasi che la denuncia, il ricorso alla legge, l’intervento risolutore di un terzo, fosse spaventoso in sé, rappresentasse il principio irreversibile di un crescendo che porterà la vittima a esporsi a ritorsioni e vendette, oltre (ed è l’aspetto patologico più pericoloso della reticenza della vittima) a inocularle il senso di colpa per aver finalmente reagito all’aggressore.
Il cammino verso la libertà dal padrone è dunque la costruzione di un rapporto di fiducia. È necessario rivolgersi alla legge e all’istituzione con lo stesso animo con cui si affida la cura di una malattia alla competenza della medicina. Per farlo, bisogna buttare via la vergogna. Non sei colpevole se l’uomo che dovrebbe volerti bene ti picchia e ti piega all’ubbidienza, così come non hai colpa se ti ammali. E non devi vergognartene. Il male è altro da te, è tuo nemico anche quando ti prende alle spalle, ti assale nell’intimo o ti chiama amore. È una guerra da combattere con intelligenza e determinazione, che il male non deve vincere.
A sabato prossimo.
"Liberazione Il lavoro psicologico da fare è quello di spingere la vittima verso la superficie e affrancarla da quella sottomissione che schiaffo dopo schiaffo ha accettato come condizione di una relazione sentimentale che di sentimentale non ha nulla