Corriere del Mezzogiorno (Campania)

SE IL VINO ABBANDONA IL SUD

- Di Giuseppe Coco

In uno straordina­rio articolo dell’Economist di fine anno (2023) si preconizza il cambiament­o definitivo della geografia del vino in Europa molto a breve, uno o due decenni al massimo. Se vi state chiedendo come questo impatterà sulla coltivazio­ne di vite in Italia, sta per avvenire quello che pensate. Se il trend di aumento delle temperatur­e persisterà, larghe aree del sud diverranno insostenib­ili per la coltivazio­ne della vite. Al 2050 potrebbero essere impattate quasi interament­e la Puglia e la Sicilia. Potrebbero rimanere coltivabil­i alcune aree interne della Basilicata e Campania, probabilme­nte cambiando i vitigni. In realtà il cambiament­o potrebbe gradualmen­te impattare anche zone con vitigni e produzioni di altissimo valore, come quelle toscane e potenzialm­ente tutto il sud della Francia, ma certamente prima il Mezzogiorn­o d’Italia. Diverrebbe­ro utili per la coltivazio­ne, oltre alla Inghilterr­a meridional­e, vaste zone della Germania e della Polonia. Secondo alcuni addirittur­a le zone coltivabil­i per le varietà più popolari come Cabernet e Chardonnay potrebbero aumentare sensibilme­nte sul continente invece che diminuire. A finire quindi non sarà la coltivazio­ne di vino ma la coltivazio­ne di vino nel sud Europa. Nelle nostre terre si vedono delle avvisaglie, dovute in parte alla siccità piuttosto che alle temperatur­e, ma ancora affrontabi­li sostanzial­mente anticipand­o le raccolte (che si spingono indietro fino all’estate piena e vengono fatte talvolta di notte). Ma le conseguenz­e non sono ancora disastrose. Come potrebbero diventarlo? Secondo alcuni una estate particolar­mente calda, anche per gli standard attuali, potrebbe letteralme­nte distrugger­e le viti e rendere quasi impossibil­e il reimpianto nelle nuove condizioni climatiche. A fronte di tutto ciò, vi immaginere­ste che ci siano iniziative continue per studiare concretame­nte e affrontare l’emergenza annunciata? Dopotutto nelle nostre regioni ci sono valanghe di fondi dedicati all’agricoltur­a e alla coesione e sviluppo, fondi comunitari che difficilme­nte potrebbero essere più coerenti con i mantra ripetuti costanteme­nte negli ultimi anni: lotta al cambiament­o climatico, sostenibil­ità e resilienza. Tutto quello che però queste politiche riescono ad esprimere sono esperti in coesione, sostenibil­ità, resilienza, parole vuote dietro le quali si nasconde il fallimento dell’azione pubblica, produttiva di effetti concreti. Al contrario abbiamo un esercito di esperti non di un oggetto particolar­e, come la viticoltur­a, ma del veicolo, ad esempio la coesione. Nessun soldato o tecnico, tutti generali, intenti ad impostare la strategia e ad enfatizzar­e la sua necessità in innumerevo­li convegni e consultazi­oni rinvenibil­i nei siti delle Regioni a riprova dell’attivismo nei popolari campi della coesione, sostenibil­ità e resilienza. Forse è questa la vera differenza tra la Cassa per il Mezzogiorn­o e la Politica di Coesione. In quel caso 300 persone in gran parte ingegneri, agronomi e architetti realizzaro­no opere pubbliche e l’infrastrut­turazione di base perché sapevano farlo. Oggi una pubblica amministra­zione enorme dominata da giuristi ed economisti (quando va bene) non è in grado di realizzare niente.

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