Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Violenza sulle donne è record in Campania Ma su 585 solo il 45% riesce ad accedere al Reddito di Libertà
In Campania sono 285 (su un totale di 585 domande) le donne vittime di violenza che beneficiano del Reddito di Libertà, il dato più alto d’Italia dopo quello lombardo (469 beneficiarie). I divari territoriali però emergono anche su un argomento così delicato. Se, infatti, dai valori assoluti si passa alle percentuali, la Campania fa registrare una performance nettamente inferiore alla media nazionale: infatti solo il 45% delle domande di Reddito di Libertà è stato accolto, mentre la media italiana è del 53%.
Il contributo
La misura, varata a livello nazionale nel 2020, prevede per le donne vittime di violenza un contributo mensile di 400 euro, per non più di un anno. Una legge dal largo consenso, capace di rompere le divisioni politiche e gli steccati di partito, presente nei programmi di centrodestra e centrosinistra.
Il Governo
E dunque non è un caso che il governo Meloni abbia reso strutturale il Reddito di Libertà con lo stanziamento, nella Legge di Bilancio 2024, di 10 milioni annui fino al 2026 e di 6 milioni per il 2027. Su questo rifinanziamento la deputata di Forza Italia, Annarita Patriarca, componente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio e sulla violenza di genere, si è espressa con entusiasmo. «Il Reddito di Libertà — ha affermato — rappresenta una misura innovativa e di fondamentale importanza nel tessuto sociale ed economico italiano. La Lombardia si posiziona in testa per
Hanno diritto alla cassa integrazione per un anno, sulla base di una intesa stipulata dai sindacati e dalla cooperativa della quale fanno parte, con il ministero del Lavoro, ma dal 1 maggio rischiano di restare senza copertura economica. Il motivo? «Il ministero — sostiene la Cgil — non ha avviato la pratica con le giuste modalità e nei tempi opportuni». Vivono settimane di apprensione i circa 70 lavoratori campani della Call It, che erano impiegati fino a qualche mese fa presso i call center della Wind. «Furono assunti — racconta Gianluca Daniele, segretario campano della Cgil Slc — circa vent’anni fa dalla cooperativa, che all’epoca si chiamava Sintesi. Sono disabili ed entrarono a far parte della quota delle categorie protette obbligatoria. Da quel momento hanno sempre svolto la propria attività per i call center di Wind. Mesi fa quest’ultima ha deciso di non rinnovare la commessa. Ci sono state manifestazioni, i sindacati hanno promosso incontri con il ministero del Lavoro e con la Regione Campania. Alla fine abbiamo ottenuto un anno di cassa integrazione. I primi quattro mesi sono stati coperti tramite anticipazione dalla Call It. Il rischio è che è a maggio, però, il trattamento si interrompa». I sindacati hanno chiesto un nuovo incontro al ministero e sono in contatto con l’assessore regionale Antonio Marchiello. La Cgil si sta mobilitando affinché, terminata la cassa integrazione, tutti i 70 siano contrattualizzati dalla Wind. Con la quale alcuni di essi hanno già avviato una causa di lavoro. numero di beneficiarie, seguita da Campania, Lazio e Sicilia, dimostrando una diffusione capillare del programma. Il governo e la maggioranza hanno dimostrato, tramite l’adozione e il finanziamento concreto di queste misure, un forte impegno nell’affrontare il tema della violenza di genere».
I limiti
Ma a guardare bene i dati e a sentire chi con le donne vittima di violenza ci lavora, proprio in Campania questa misura ha fatto emergere i suoi limiti. «Il problema del Reddito di Libertà — spiega Patrizia Palumbo, coordinatrice del Cav di Scampia e presidente dell’associazione Dream Team
Settanta lavoratori della Call It a rischio dal prossimo 1 maggio
Patrizia Palumbo «Purtroppo il sussidio è riservato soltanto a coloro che sono in carico ai Centri»
Donne in Rete — è di essere riservato alle donne che sono in carico ai Centri antiviolenza o ai servizi sociali al momento della presentazione della domanda. Siamo noi a certificare la fragilità di chi fa richiesta e dunque vengono escluse tutte le donne che hanno terminato i percorsi di sostegno anche se non hanno alcuna reale indipendenza economica. Un percorso di una utente nel Cav — precisa la coordinatrice — non supera i 4 mesi e dopo una donna non guarisce dalla violenza, non esce dallo stato di fragilità». Il percorso tortuoso della presentazione della domanda e dell’erogazione del contributo rende, in concreto, il Reddito di Libertà una palude. «Ci vogliono — sottolinea Palumbo — tre passaggi prima che i fondi arrivino ai Cav: Governo centrale, Regione, Comuni o ambiti territoriali, questo rende i pagamenti lentissimi. I fondi del 2022, ad esempio, devono ancora arrivare. Abbiamo tutta la modulistica ma serve una copertura economica vera che possa assicurare un percorso a tutte le donne vittime di violenza. Basterebbe dare la possibilità ai nostri centri di certificare una situazione di fragilità anche per le donne che hanno terminato i percorsi. Sono tante — dice — le utenti che tornano a chiedere aiuto, le vite sono percorsi complessi e non possono essere banalizzate». Ad oggi, la portata innovativa e concreta del Reddito di Libertà in Campania si perde nelle maglie troppo larghe di un rete regionale di servizi per le donne in affanno e sottorganico.
I Cav
A Napoli su 10 Municipalità ci sono solo 6 Centri antiviolenza accreditati e dei 66 presenti in tutta la Campania oltre il 25% denuncia l’inesistenza di una
governance territoriale contro la violenza sulle donne, il dato più alto d’Italia. «Lavorare nei Cav è una missione — conferma Palumbo — prestiamo servizi h24, senza fondi e con una burocrazia tremenda e lo facciamo solo grazie alla rete di sorellanza costruita nei decenni, mettendo insieme esperienze e competenze indispensabili ad affrontare percorsi di recupero che sono lunghi, perché la violenza è subdola, ti resta addosso per anni e senza occupazione non la batti. Per questo servirebbero fondi e non chiacchiere ma sento parlare troppi tuttologi e pochi esperti». Dunque a conti fatti anche il Reddito di Libertà, come tante altre buone idee, in Campania è diventato un indicatore di un divario territoriale profondo, complesso e ormai cristallizzato.
«Anche tra i malati oncologici c’è diffidenza verso i vaccini»
«Dopo la pandemia da Covid, anche tra i malati di cancro è aumentata l’esitazione verso i vaccini. C’è una stanchezza su questo tema, comprensibile perché la popolazione è stata chiamata ad effettuare una serie di vaccinazioni. Ora è il momento di riprendere il dialogo con le categorie più a rischio. Bisogna lavorare per aumentare nei soggetti fragili conoscenza e coscienza vaccinale». Lo ha detto Roberto Parrella, direttore Unità operativa complessa Malattie infettive respiratorie dell’Ospedale Cotugno di Napoli, presidente della Simit (Società italiana malattie infettive e tropicali), al convegno «La protezione vaccinale nei pazienti fragili e a rischio. Focus sui pazienti oncologici», al ministero della Salute. Soprattutto «gli immunodepressi e gli oncologici», ha sottolineato, sono pazienti «particolarmente a rischio di sviluppare malattie gravi, severe, che oggi possiamo prevenire attraverso degli schemi vaccinali che abbiamo a disposizione contro pneumococco, Herpes zoster», virus respiratorio sinciziale «Rsv, meningococco, senza mai trascurare la classica influenza stagionale o l’anti-Covid».
Aumenta la spesa delle famiglie campane per curarsi: un dato da leggere attentamente in filigrana dato che è fortemente condizionato dall’incidenza della povertà assoluta. In Campania la spesa annuale delle famiglie per la salute nel 2022 è stata pari a 1.274,16 euro: +11,5% (circa 126 euro in più) rispetto al 2021 in cui era pari a 1.142,28 euro; la percentuale delle famiglie che ha rinunciato alle prestazioni sanitarie nel 2022 è pari al 4,7%, percentuale considerata tra le più basse fra le regioni e province autonome insieme alla Provincia autonoma di Bolzano.
È quanto emerge dall’analisi della Fondazione GIMBE che misura le dimensioni dell’impatto della spesa sanitaria out-of-pocket, ovvero quella sostenuta direttamente dalle famiglie, sui bilanci familiari.
Si segnala inoltre che nel 2022 il 16,7% delle famiglie italiane dichiarano di avere limitato la spesa per visite mediche e accertamenti periodici preventivi in quantità e/o qualità. Se il Nord-Est (10,6%), il Nord-Ovest (12,8%) e il Centro (14,6%) si trovano sotto la media nazionale, tutto il Mezzogiorno si colloca al di sopra: di poco le Isole (18,5%), di oltre 10 punti percentuali il Sud (28,7%), in pratica più di 1 famiglia su 4. Mentre il 4,2% delle famiglie italiane dichiara di non disporre di soldi in alcuni periodi dell’anno per far fronte a spese relative alle malattie. Sono al di sotto della media nazionale il Nord-Est (2%), il Centro (3,1%) e il NordOvest (3,2%), mentre il Mezzogiorno si colloca al di sopra della media nazionale: rispettivamente le Isole al 5,3% e il Sud all’8%, un dato quasi doppio rispetto alla media nazionale. L’incidenza della povertà assoluta per le famiglie in Italia — ovvero il rapporto tra le famiglie con spesa sotto la soglia di povertà e il totale delle famiglie residenti — è salita dal 7,7% (2021) al 8,3% (2022), ovvero quasi 2,1 milioni di famiglie. Il Nord-Est ha registrato l’incremento più significativo, passando dal 7,1% al 7,9%, seguito dal Sud con un aumento dal 10,5% all’11,2% e dalle Isole con un incremento dal 9,2% al 9,8%. Anche se il Nord-Ovest e il Centro hanno registrato un aumento più contenuto (0,4%), il fenomeno della povertà assoluta è diffuso su tutto il territorio nazionale. «Dalle nostre analisi emergono tre considerazioni — dice Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe —. Innanzitutto l’entità della spesa out-ofpocket sottostima le mancate tutele pubbliche perché viene arginata da fenomeni conseguenti alle difficoltà economiche delle famiglie. In secondo luogo, questi fenomeni sono molto più frequenti nelle regioni del Mezzogiorno, proprio quelle dove l’erogazione dei Livelli essenziali di assistenza è inadeguata. Infine, lo status di povertà assoluta che coinvolge oggi più di due milioni di famiglie richiede urgenti politiche di contrasto alla povertà, non solo per garantire un tenore di vita dignitoso a tutte le persone, ma anche perché le diseguaglianze sociali nell’accesso alle cure e l’impossibilità di far fronte ai bisogni di salute con risorse proprie — conclude Cartabellotta — rischiano di compromettere la salute e la vita dei più poveri, in particolare nelle aree del Mezzogiorno. Dove l’impatto sanitario, economico e sociale senza precedenti rischia di peggiorare ulteriormente con l’autonomia differenziata».