Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Il giovane militante che sembrava un puma
Gli occhi stretti e gialli, il muso con una persistente fioritura di acne. Però il corpo e i movimenti esprimevano l’agilità di un grande felino, la bellezza di un puma. In classe non sapevamo molto di lui; la sua era un’assenza materializzata dal vuoto di quell’ultimo banco. Le rare volte in cui Alberto Luongo vi si insediava, dava comunque l’idea di non esserci. Si astraeva dalla lezione, non aveva legato con nessuno. Con il senno di poi, si capisce che lui doveva disconoscere la scuola come istituzione preposta a riprodurre le basi del dominio capitalistico. Con il senno di poi, il nostro liceo e quell’aula così interclassisti dovevano rappresentare, per lui, solo un appoggio o, magari, un punto di osservazione. Un’occasione per rifiatare, in quella sua esistenza da militante irregolare che neanche sospettavamo. Un irregolare: il terrorista munito ancora di un’identità legale, nel gergo degli anni di piombo.
Il puma - oggi lo sappiamo - non aveva avuto ancora modo di varcare la linea d’ombra che precede la clandestinità. Ovvero l’invisibilità, dunque la morte civile. O quell’anticipo di morte spirituale che sarebbe stato, poi, il carcere. Oggi mi chiedo: come doveva considerare noi, gli ignari, quando metteva piede in classe? Alberto Luongo era un pluriripetente, più grande di un paio d’anni rispetto a noialtri, da poco maggiorenni. La sua dimensione, inoltre, era la guerra, la guerra civile. Perciò sono sicuro che, dal suo ultimo banco, lui ci considerasse con la sufficienza riservata ai bambini. Bambini turbolenti i quali – attraverso le zuffe davanti al portone napoleonico di quel liceo – scimmiottavano i veri combattenti. Non aveva torto, il puma: noialtri mimavamo l’antica festa crudele della guerra con armi raffazzonate. Brandivamo l’asta di una bandiera. O un manico di piccone. Oppure un attrezzo da idraulico. Noialtri, in fondo, eravamo come gli invasati bambini delle Crociate, che andavano a guerreggiare con delle spade di legno, ognuno per la sua Gerusalemme. Nondimeno capitava che morissero a sedici anni, in questa parodia della guerra dove capitava di versare sangue reale. Il più vero e puro: sangue dei fratelli, sangue dei ragazzi, il primo sangue. In ogni caso, escludo che il puma arrivasse a teorizzare in termini così equanimi. Pochissimi, all’epoca, si sforzavano di riuscirci. Più verosimilmente, lui ci considerava tutti in blocco – compagni e camerati – come degli infantili. A riprova del nostro stato di minorità, noi studiavamo anche fra un corteo e una rissa. Ci arrabattavamo a venire promossi, per non avere grane in famiglia. Mentre lui era già sul punto di rinnegare padre e madre, come un soldato messianico deve necessariamente fare. Ovviamente noialtri ignoravamo ciò che gli frullava nel cervello. Lui era un corpo estraneo in sembianze di puma. Un corpo che, ogni tanto, prendeva posto e sbadigliava spalancando le fauci nel suo banco, una nicchia ecologica che nessuno osava contendergli. Un corpo il quale, ancora adesso, mi soffia all’orecchio un’incredibile sensazione di agilità felina, insidiosa. Un puma quando balza per schivare le pallottole dei suoi cacciatori. Proiettili che scheggiano la pietra grigia, la scabra parete dietro quel suo ultimo banco. Manco a dirlo, queste sono allucinazioni prodotte dalla doppia vista della scrittura, quando essa deforma il ricordo in una curvatura paradossale, fino a spezzarlo. Alberto, invece, ebbe concretamente luogo nel mio passato liceale. Con che ruolo? A volte, lo ammetto, mi ha sfiorato un dubbio non troppo onorevole per lui. Vale a dire che si ripresentasse, una lezione ogni tanto, al solo scopo di studiare quelli della parte avversa. E valutare se fossero meritevoli di imboscate, spedizioni punitive. Quando questo sospetto guizza nel campo della mia coscienza, lo tacito immediatamente. Ma no, mi dico, lui stava per diventare un rivoluzionario di professione. La sua organizzazione si preoccupava di allestire lo scontro con lo Stato e i suoi uomini. Che senso avrebbe avuto far impartire una lezione a ragazzini come il sottoscritto? I miei pari dovevano sembrargli delle ombre sul muro, che tutt’al più lo avranno incuriosito. Con me questo accadde una sola volta. Una volta che me lo rese non così alieno, il puma. E dunque umano, dunque raccontabile. Io ho sempre amato disegnare, da limitato copista. In quel periodo ammiravo in modo maniacale William Blake. Un incisore e poeta, un anticapitalista romantico e visionario vissuto nell’Inghilterra agli albori della rivoluzione industriale. Di solito ricopiavo a mano libera una delle sue opere, a casa, per rifinirla il giorno dopo, in classe, durante le ore morte. Stavo dunque ombreggiando sul banco una volenterosa riproduzione da Blake: L’angelo della rivelazione. Quando, all’estremità della visione periferica, avvertii una presenza silenziosa poco dietro le mie spalle. Una presenza ancora indecisa tra una diffidenza sorda e la curiosità. Fare finta di nulla mi sembrava un atteggiamento pavido, oltre che puerile: solo i bambini s’illudono di far sparire una minaccia guardando altrove. Provai così a inarcare la testa, a girarla di scatto verso il puma. La rotazione delle vertebre mi riuscì lenta, appesantita da una pressione oculare che mi gravava sulla nuca. Quando finalmente arrivai con lo sguardo all’altezza dei suoi occhi – stretti, gialli – il puma si era già allontanato con quei suoi lievi balzi felpati ed elastici, che appena appena toccavano terra. Cosa gli avrei detto, se fossi stato più pronto di riflessi? Gli avrei bofonchiato qualcosa su Blake, sul titolo del suo acquerello, senza ottenere risposta credo. Al massimo avrebbe strizzato quei suoi occhi stretti e gialli, prima di mettere a fuoco l’immagine e lasciarmi al mio destino di innocuo. In tutta onestà, non ricordo altre interazioni fra noi, durante l’unico anno di convivenza in classe. Del resto lui non compare mai, nelle foto collettive, né lo menzioniamo mai durante le nostre rimpatriate. È successo, però, un fatto strano.
A mezzanotte di quest’ultimo trentuno dicembre – è un compito esclusivo mio - ho iniziato a stappare lo spumante, in sincrono con il conto alla rovescia. Contrariamente al solito, il tappo sembrava resistere alle mie torsioni con un’energia sorda. Finché il collo della bottiglia non si è spezzato e il troncone, aguzzo, mi ha sfiorato l’arteria del polso. Così, di colpo, ho ripensato al puma.
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