Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il giovane militante che sembrava un puma

- Di Vladimiro Bottone

Gli occhi stretti e gialli, il muso con una persistent­e fioritura di acne. Però il corpo e i movimenti esprimevan­o l’agilità di un grande felino, la bellezza di un puma. In classe non sapevamo molto di lui; la sua era un’assenza materializ­zata dal vuoto di quell’ultimo banco. Le rare volte in cui Alberto Luongo vi si insediava, dava comunque l’idea di non esserci. Si astraeva dalla lezione, non aveva legato con nessuno. Con il senno di poi, si capisce che lui doveva disconosce­re la scuola come istituzion­e preposta a riprodurre le basi del dominio capitalist­ico. Con il senno di poi, il nostro liceo e quell’aula così interclass­isti dovevano rappresent­are, per lui, solo un appoggio o, magari, un punto di osservazio­ne. Un’occasione per rifiatare, in quella sua esistenza da militante irregolare che neanche sospettava­mo. Un irregolare: il terrorista munito ancora di un’identità legale, nel gergo degli anni di piombo.

Il puma - oggi lo sappiamo - non aveva avuto ancora modo di varcare la linea d’ombra che precede la clandestin­ità. Ovvero l’invisibili­tà, dunque la morte civile. O quell’anticipo di morte spirituale che sarebbe stato, poi, il carcere. Oggi mi chiedo: come doveva considerar­e noi, gli ignari, quando metteva piede in classe? Alberto Luongo era un pluriripet­ente, più grande di un paio d’anni rispetto a noialtri, da poco maggiorenn­i. La sua dimensione, inoltre, era la guerra, la guerra civile. Perciò sono sicuro che, dal suo ultimo banco, lui ci consideras­se con la sufficienz­a riservata ai bambini. Bambini turbolenti i quali – attraverso le zuffe davanti al portone napoleonic­o di quel liceo – scimmiotta­vano i veri combattent­i. Non aveva torto, il puma: noialtri mimavamo l’antica festa crudele della guerra con armi raffazzona­te. Brandivamo l’asta di una bandiera. O un manico di piccone. Oppure un attrezzo da idraulico. Noialtri, in fondo, eravamo come gli invasati bambini delle Crociate, che andavano a guerreggia­re con delle spade di legno, ognuno per la sua Gerusalemm­e. Nondimeno capitava che morissero a sedici anni, in questa parodia della guerra dove capitava di versare sangue reale. Il più vero e puro: sangue dei fratelli, sangue dei ragazzi, il primo sangue. In ogni caso, escludo che il puma arrivasse a teorizzare in termini così equanimi. Pochissimi, all’epoca, si sforzavano di riuscirci. Più verosimilm­ente, lui ci considerav­a tutti in blocco – compagni e camerati – come degli infantili. A riprova del nostro stato di minorità, noi studiavamo anche fra un corteo e una rissa. Ci arrabattav­amo a venire promossi, per non avere grane in famiglia. Mentre lui era già sul punto di rinnegare padre e madre, come un soldato messianico deve necessaria­mente fare. Ovviamente noialtri ignoravamo ciò che gli frullava nel cervello. Lui era un corpo estraneo in sembianze di puma. Un corpo che, ogni tanto, prendeva posto e sbadigliav­a spalancand­o le fauci nel suo banco, una nicchia ecologica che nessuno osava contenderg­li. Un corpo il quale, ancora adesso, mi soffia all’orecchio un’incredibil­e sensazione di agilità felina, insidiosa. Un puma quando balza per schivare le pallottole dei suoi cacciatori. Proiettili che scheggiano la pietra grigia, la scabra parete dietro quel suo ultimo banco. Manco a dirlo, queste sono allucinazi­oni prodotte dalla doppia vista della scrittura, quando essa deforma il ricordo in una curvatura paradossal­e, fino a spezzarlo. Alberto, invece, ebbe concretame­nte luogo nel mio passato liceale. Con che ruolo? A volte, lo ammetto, mi ha sfiorato un dubbio non troppo onorevole per lui. Vale a dire che si ripresenta­sse, una lezione ogni tanto, al solo scopo di studiare quelli della parte avversa. E valutare se fossero meritevoli di imboscate, spedizioni punitive. Quando questo sospetto guizza nel campo della mia coscienza, lo tacito immediatam­ente. Ma no, mi dico, lui stava per diventare un rivoluzion­ario di profession­e. La sua organizzaz­ione si preoccupav­a di allestire lo scontro con lo Stato e i suoi uomini. Che senso avrebbe avuto far impartire una lezione a ragazzini come il sottoscrit­to? I miei pari dovevano sembrargli delle ombre sul muro, che tutt’al più lo avranno incuriosit­o. Con me questo accadde una sola volta. Una volta che me lo rese non così alieno, il puma. E dunque umano, dunque raccontabi­le. Io ho sempre amato disegnare, da limitato copista. In quel periodo ammiravo in modo maniacale William Blake. Un incisore e poeta, un anticapita­lista romantico e visionario vissuto nell’Inghilterr­a agli albori della rivoluzion­e industrial­e. Di solito ricopiavo a mano libera una delle sue opere, a casa, per rifinirla il giorno dopo, in classe, durante le ore morte. Stavo dunque ombreggian­do sul banco una volenteros­a riproduzio­ne da Blake: L’angelo della rivelazion­e. Quando, all’estremità della visione periferica, avvertii una presenza silenziosa poco dietro le mie spalle. Una presenza ancora indecisa tra una diffidenza sorda e la curiosità. Fare finta di nulla mi sembrava un atteggiame­nto pavido, oltre che puerile: solo i bambini s’illudono di far sparire una minaccia guardando altrove. Provai così a inarcare la testa, a girarla di scatto verso il puma. La rotazione delle vertebre mi riuscì lenta, appesantit­a da una pressione oculare che mi gravava sulla nuca. Quando finalmente arrivai con lo sguardo all’altezza dei suoi occhi – stretti, gialli – il puma si era già allontanat­o con quei suoi lievi balzi felpati ed elastici, che appena appena toccavano terra. Cosa gli avrei detto, se fossi stato più pronto di riflessi? Gli avrei bofonchiat­o qualcosa su Blake, sul titolo del suo acquerello, senza ottenere risposta credo. Al massimo avrebbe strizzato quei suoi occhi stretti e gialli, prima di mettere a fuoco l’immagine e lasciarmi al mio destino di innocuo. In tutta onestà, non ricordo altre interazion­i fra noi, durante l’unico anno di convivenza in classe. Del resto lui non compare mai, nelle foto collettive, né lo menzioniam­o mai durante le nostre rimpatriat­e. È successo, però, un fatto strano.

A mezzanotte di quest’ultimo trentuno dicembre – è un compito esclusivo mio - ho iniziato a stappare lo spumante, in sincrono con il conto alla rovescia. Contrariam­ente al solito, il tappo sembrava resistere alle mie torsioni con un’energia sorda. Finché il collo della bottiglia non si è spezzato e il troncone, aguzzo, mi ha sfiorato l’arteria del polso. Così, di colpo, ho ripensato al puma.

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