Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Quando i grandi del Novecento scrivevano a Rea: «Caro Mimì...»
noscere, forse meglio di tutti, i suoi limiti ma anche il suo talento. Una doppia lama che spesso tradisce nella magnifica corrispondenza con Luigi Compagnone, al quale scrive «è facilissimo dare una rappresentazione falsa del mio carattere» e in un’altra occasione «si tratta (…) di vita forzata in un paese che odio, dove non ho un amico, dove non è possibile una conversazione». Il paese è Nocera Inferiore, Nofi: la sua Macondo. Scrivendo di lui, Giovanni Raboni disse «pensando a quanto ci siamo innamorati delle pagine e dei personaggi di Garcìa Màrquez e di Onetti, viene da chiedersi come abbiamo fatto a non accorgerci che ce l’avevamo in casa, a Posillipo, il nostro grande latinoamericano». Una consacrazione tardiva, poche settimane dopo Mimì si spense a causa di un ictus. «Anche della morte – aggiunge Lucia – aveva una considerazione ironicamente letteraria: la considerava necessaria se riguardava gli altri, emendabile se associata a lui».
Pescando dalla biblioteca si corre il delizioso rischio di imbattersi nella prima edizione di Lessico famigliare (con dedica di Natalia Ginzburg), in quasi tutto Montale (con dedica del Nobel, ça va sans dire) e nella fitta corrispondenza tra Rea e i più protagonisti del Novecento. Ciascuno dei quali si rivolgeva a lui chiamandolo Mimì. Ma allora cos’è che non va? Perché è ancora necessario lottare per imporre Domenico Rea come un discepolo della nostra migliore letteratura? «Non credo che occorra una legittimazione, poiché da tutti è ritenuto quello che sappiamo. Forse sarebbe utile una riconsiderazione filologica delle sue opere soprattutto alla luce delle commistioni linguistiche così tanto di moda oggi – conclude Lucia, mostrandoci i libroni della rassegna stampa dedicata al padre –. Penso soprattutto a Una vampata di rossore, ma anche a Pensieri della notte. È stato senza dubbio un grande scrittore, ma il suo pudore lo ha tenuto sempre lontano dal potere, come quando lasciò il Partito comunista con un gesto eclatante perché riteneva che si fosse smarrito il senso delle sue lotte… ». Si riteneva uno scrittore di racconti, non un romanziere. Si nascondeva dagli osanna, che scansandolo si dirigevano verso colleghi più modesti. Amava la musica (chissà se sapesse che suo nipote Lorenzo è divenuto un grande pianista), riteneva la conservazione dei beni artistici e culturali «l’unica politica degna di un ministero» (chissà se sapesse che l’altra nipote, Fiammetta, sta studiando da professionista del settore). Rea è stato così in anticipo rispetto alla scrittura, ai suoi tempi e all’antropologia di cui si occupava come indagatore dell’anima, che non ha fatto in tempo a veder passare il simulacro di sé stesso. Forse l’avrebbe abiurato, ma certamente l’avrebbe meritato. Scusaci Mimì, se non ti abbiamo visto arrivare.