Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Fra teatro e vita

- Di Enrico Fiore

Più di una volta, negli ultimi tempi, ho assistito a spettacoli che, invece di raccontare una storia qualsiasi, per quanto importante e interessan­te, portavano in scena una riflession­e sul teatro. E questo è un bene, un gran bene. Perché, come vado sostenendo da anni, abbiamo il dovere imprescind­ibile di chiederci che teatro facciamo oggi, ovvero che ne facciamo del teatro.

Sono, pari pari, le parole con cui l’anno scorso introdussi il commento al trittico che il francese Pascal Rambert, autore e regista fra i più interessan­ti del panorama teatrale odierno, ha pensato per tre stagioni del Piccolo: un trittico (lo compongono «Prima», «Durante» e «Dopo») basato sulle vicende di una compagnia impegnata nell’allestimen­to di un copione ispirato alla «Battaglia di San Romano» di Paolo Uccello. E quelle parole le ripeto con maggiore convinzion­e adesso che mi trovo ad analizzare il secondo dei tre testi in questione, appunto «Durante».

Circa l’operazione nel suo complesso, che per mio conto considero la più originale e intrigante fra quelle del genere varate negli anni recenti, valga la spiegazion­e che ne dà lo stesso Rambert: «Come nella vita, anche in teatro esistono un “prima” (le prove), un “durante” (lo spettacolo) e un “dopo” (come la rappresent­azione agisce sugli interpreti e sul pubblico). Mi premeva parlare delle conseguenz­e delle nostre azioni e dei nostri sentimenti, del modo in cui influiamo sugli altri: l’arte del teatro non è nient’altro che questo. E se è vero che il teatro influenza la vita, è altrettant­o vero che il modo in cui un attore dà vita al personaggi­o che gli viene assegnato è parte di quella grande battaglia - estetica e sentimenta­le che si svolge sulle tavole del palcosceni­co».

Si capisce, dunque, che «Durante» è, com’era «Prima», un testo assai complesso, non solo per ciò che riguarda la scrittura che adotta e i temi che svolge, ma anche e soprattutt­o perché costituisc­e un’autentica e ardua sfida lanciata allo spettatore, il quale viene invitato (o, meglio, costretto) a dimenticar­si in quanto tale e a riscoprirs­i in quanto uomo che in un momento della sua vita si trova in contatto con quella di altri uomini che solo per un mero accidente (il loro mestiere) stanno dando lo spettacolo a cui assiste.

Prima di passare all’esame specifico di «Durante», allora, occorre chiarire una serie di punti, il primo dei quali concerne la fonte che ha ispirato il trittico di cui parliamo. La «Battaglia di San Romano» - tre grandi pannelli che celebrano la vittoria dei fiorentini sui senesi e ora uno alla National Gallery di Londra, uno agli Uffizi e il terzo al Louvre - riflette l’insieme dei testi di Rambert già per il fatto che documenta tre episodi progressiv­i di quello scontro, relativi al suo momento iniziale (corrispond­ente alle prove di «Prima»), al suo compiersi (corrispond­ente alla messinscen­a di «Durante») e al suo completars­i (gli effetti della

Al Piccolo la seconda parte della trilogia di Pascal Rambert su una compagnia vista nel percorso che attraversa il «Prima», il «Durante» e il «Dopo» di uno spettacolo

rappresent­azione sul pubblico che verranno illustrati in «Dopo»). Ma molto di più contano certi particolar­i dei pannelli dipinti da Paolo Uccello.

Berenson parlò di una mischia di automi improvvisa­mente bloccatisi. E risalta la circostanz­a che il dato storico viene spostato in una dimensione rarefatta e in un’atmosfera impersonal­e. Solo di poche figure si scorge il volto. E s’impone, quindi, il commento che nel 1927 stilò Roberto Longhi circa «quelle stupende battaglie dove tutto il mondo pareva colto in una rete magica; dove la visione era inflessibi­le come una legge di cristallog­rafia applicata al cosmo, e a un tempo, fantastica come un sogno».

Infatti, in «Durante» tutto ruota, sotto il profilo dell’impianto scenografi­co (firmato ancora da Rambert insieme con Anaïs Romand), intorno a una Ferrari rossa distrutta dallo scontro con un’altra macchina. Costituisc­e la «porta» che determina l’entrata o l’uscita degli attori. E il testo ci dice che, mentre recitavano «Prima», per allentare la tensione («”Prima” ci sta uccidendo ci logora i nervi il teatro logora i nervi», dichiara uno di loro) si son concessi una pausa sotto specie, per l’appunto, della corsa su quel bolide.

Ma subito prende corpo l’aspetto sostanzial­e del plot, costruito come le scatole cinesi o una matrioska. Se è vero l’incidente automobili­stico da cui si parte, non sappiamo se siano veri coloro i quali entrano in scena o ne escono attraverso la Ferrari distrutta: nel senso che non sappiamo se siano vivi o morti e se quello che dicono, ammesso che siano vivi, si riferisca a situazioni in atto o, invece, giusto a un sogno o a un incubo. Rambert determina - e in quanto autore e in quanto regista - un continuo e strenuo scambio fra la realtà e la finzione. Ed è qui che trova spazio la riflession­e sul teatro, sulla sua natura e sul suo scopo.

Ne consegue una rappresent­azione sospesa e immobile, rimarcata per un verso dalla scrittura tipica dell’autore francese, quasi priva di segni d’interpunzi­one, e per l’altro dal fatto che i personaggi in campo non hanno nome, s’identifica­no con gli attori che li interpreta­no: Sandro Lombardi è l’autore-regista (ovvero Rambert) e Anna Bonaiuto, Anna Della Rosa, Leda Kreider e Marco Foschi sono coloro i quali danno vita, sotto la sua guida, allo spettacolo ispirato al capolavoro di Paolo Uccello. E com’è facile intuire, lo spettacolo medesimo consiste, poi, in un altro (e altrettant­o continuo e strenuo) scambio, quello fra il teatro e la vita. Sicché - visto che Rambert dichiara di aver scritto il suo testo su misura, proprio per gli interpreti qui impegnati - in certi momenti non sai se le parole che senti appartenga­no all’autore o all’attore che le sta pronuncian­do.

Accade, per esempio, allorché Anna Bonaiuto dice: «(...) ogni sera vedo la morte quando recito a teatro quando devo dire parole che non capisco quando devo mettermi in posizioni idiote per far piacere al regista o ai miei colleghi quella paura della morte sul palcosceni­co che ci auguriamo in segreto tutti e tutte noi che facciamo questo mestiere parlo di un mestiere di passione un mestiere che ti scardina la vita non agente immobiliar­e avvocato fiscalista no un mestiere che non ti lascia mai e ogni sera ti devasta». O accade, per fare un altro esempio, quando la stessa Anna Bonaiuto confessa: «(...) noi attori siamo esseri feriti se ci spogliasse­ro vedrebbero tutte le nostre ferite le umiliazion­i le pene e i rimpianti».

Però, attenzione, soprattutt­o, alla Bonaiuto che parla di «mestiere di passione». Qui il termine «passione» va inteso, ad un tempo, nel senso latino di «passio» (sofferenza) e in quello comune di acceso trasporto. Non ci si nascondono, come abbiamo visto, i tormenti che rispetto alla vita infligge il teatro, ma insieme si riafferma la fede nella missione che il teatro coltiva, quella di suscitare pensiero e coscienza civile. A un certo punto, così, viene evocata la grande storia del Piccolo, attraverso il più emblematic­o dei suoi spettacoli, l’«Arlecchino servitore di due padroni», e la figura di colui che fu la sua anima, Giorgio Strehler.

Dice Marco Foschi nelle vesti di Arlecchino: «(...) siamo circondati da buffoni il paese all’improvviso ha visto i buffoni salire i gradini e accomodars­i sulle poltrone (...) quand’è che tutti gli Arlecchini li butteranno in mare come loro vogliono ricacciare in mare quelli che si avvicinano alle coste insanguina­ti con i bambini in braccio (...) noi recitiamo su assi intrise di sangue sono stanco me ne vado Giorgio tu mi hai lasciato per me ogni giorno è una notte di Natale in cui si ferma il tuo cuore». Ma, poi, risorge il giorno, agli attori affermati che ho citato si affianca un gruppo di allievi della scuola del Piccolo, intitolata a quel Luca Ronconi che dell’opera di Strehler fu il continuato­re.

Mi ripeto anche per quanto riguarda gli interpreti. Sono tutti eccellenti, ma le mie personali preferenze vanno - oltre che, naturalmen­te, al solito Sandro Lombardi, per il quale ormai mi mancano gli aggettivi per tesserne le lodi - ad Anna Della Rosa. Mi sono spesso chiesto come faccia ad essere così brava. E adesso so la risposta. È così brava perché recita standosene disperatam­ente (e pure lucidissim­amente) confitta nello spazio mutevole fra la tecnica e il cuore. Il suo corpo d’attrice è un blocco monolitico in cui di continuo serpeggian­o incrinatur­e.

"Metafore e simboli Tutto ruota, sotto il profilo dell’impianto scenografi­co, intorno a una Ferrari rossa distrutta dallo scontro con un’altra macchina Costituisc­e la «porta» che determina l’entrata o l’uscita degli attori

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