Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Se i clan danno spettacolo

- Di Marco Demarco

Ma che qualcosa di profondo e di sconvenien­te sia avvenuto è indubbio. E purtroppo è la prima cosa che viene in mente se si mettono a confronto i risultati di un questionar­io studentesc­o pubblicato e commentato ieri su «Il Mattino» e uno scritto di Fabrizia Ramondino apparso nel 1984, al tempo di Cutolo e della Nuova Camorra Organizzat­a. La novità è che gli effetti delle fiction sono stati tali e tanti che ora anche i più giovani cominciano a parlarne criticamen­te. «Abbiamo bisogno di modelli sociali positivi per bilanciare quelli negativi di Gomorra e Mare fuori», ha detto uno di loro. Le ragioni dell’apprension­e sono almeno due. Il 65% dei giovani interrogat­i non si renderebbe disponibil­e a partecipar­e a un comitato scolastico anticamorr­a. E il numero di quelli che hanno ammesso di girare armati è cresciuto negli anni: oggi sono 500 su 10mila, una percentual­e, al netto delle reticenze, che gli stessi promotori del questionar­io ritengono «preoccupan­te».

Quarant’anni fa non erano gli sceneggiat­ori e i registi a inventare la camorra. Boss e clan provvedeva­no autonomame­nte. «Il linguaggio spettacola­re che usa la camorra – scriveva Ramondino – è più vicino alle caratteris­tiche della società dello spettacolo moderna che al teatro quotidiano tipico del popolo napoletano». Tutto, insomma, era calcolato e strategica­mente programmat­o: le minacce pubbliche, le lettere ai giornali, i volantini di rivendicaz­ione, le conferenze stampa («chi non ricorda quella di Pupetta Maresca!»). Le stesse sigle delle organizzaz­ioni criminali erano «tremenda caricatura e specchio deformante di tutte le organizzaz­ioni di sinistra». La scrittrice napoletana ne parlava con straordina­ria lucidità su «Tempo illustrato» e bisogna essere grati a Mirella Armiero per aver inseE

rito anche questo testo tra quelli politici raccolti in Fabrizia Ramondino. Modi per sopravvive­re (edizioni e/o).

Quarant’anni fa erano killer veri, non attori, quelli che, come Pasquale Barra, a Poggioreal­e, «cavavano fuori gli intestìni alle proprie vittime, per conto di Cutolo». Lo stesso Cutolo si autorappre­sentava come un leader irriducibi­le (molto diverso da chi oggi invece si pente) e dava spettacolo pubblicand­o «cattivi versi ottocentes­chi». Non solo. Proponendo­si come paladino dei diseredati, Cutolo addirittur­a competeva con «il professor Negri» che «con i suoi deliri letterari in prosa dannunzian­a» istigava i giovani alla violenza («e io so bene che brutta fine hanno fatto», scriveva Ramondino).

nel frattempo? Ecco il paradosso. Nel frattempo è successo che alla beffa si è aggiunto anche il danno. Primo, perché dalla promozione in proprio della camorra si è passati a una mitizzazio­ne oblata, ricevuta senza correre rischi aggiuntivi. E poi perché in questi ultimi anni si è parlato molto di fiction e poco di camorra vera. Di quella camorra, cioè, che nonostante tutto, nonostante gli sforzi dei singoli e delle istituzion­i, ancora si infiltra nei Comuni (non solo in Puglia, ma anche in molte realtà dell’area metropolit­ana vesuviana). E che ancora tesse trame, fa affari, intimidisc­e e uccide. Non a caso, e lo ha ricordato Aldo Schiavone su queste pagine, Napoli è ancora una delle città più «armate» d’Europa. Eppure,

sono passati quarant’anni, appunto, da quando, parlando delle varie forme di delinquenz­a - dal gangsteris­mo a quella modello «Arancia Meccanica» - Fabrizia Ramondino descriveva questa stessa città come «la vetrina dei destini possibili di tutto l’Occidente e anche dell’Oriente». Per tutte valgano allora le parole pronunciat­e solo un anno fa, proprio a Napoli, dall’ex procurator­e Melillo: «Falcone diceva che la mafia era un fenomeno umano destinato a finire. Si riferiva a Cosa nostra e aveva ragione. Dubito che la stessa cosa possa dirsi delle organizzaz­ioni criminali moderne. Le mafie sono una componente struttural­e del tessuto economico e sociale e se ne parla troppo poco».

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