Corriere del Mezzogiorno (Campania)

I Cagnazzi, ai confini del Rione Sanità

- Di Pietro Treccagnol­i

Provate a chiedere, per esempio, a un residente o a un negoziante dei Vergini che strada fare per andare ai Cristallin­i, che si trovano a una mezza dozzina di stradine più su, vi risponderà con un gesto ampio delle braccia, una faccia carica di meraviglia, mettendovi in guardia come foste diretti alle isole Faroe e vorreste ripetere le gesta di Roald Amundsen. È così per tanti luoghi della Sanità: per i Miracoli, i Cinesi, i Tronari, le Fontanelle (quelle sì, effettivam­ente distanti, ma piacevolme­nte raggiungib­ili a piedi). Ed è così pure per i Cagnazzi, un toponimo che mi ha sempre incuriosit­o e invitato a un’escursione, perché alle mie orecchie evocava un luogo mitologico. Sono passato centinaia e centinaia di volte accanto all’imbocco di fianco alla chiesa di Santa Maria del Soccorso, a via Amedeo d’Aosta, e mai che la curiosità l’aveva avuta vinta.

Una strada stretta annuncia una salita ripida, attanaglia­ta, all’imbocco e per molti metri ancora, da imponenti condomini con edifici di una decina di piani, poi un albergo, l’insegna gialla del Collegio dei Cinesi provvista di ideogrammi, un presidio sanitario e il fiato comincia a mancare. Siamo davvero lontani dal cuore della Sanità: è zona di confine anche se fa parte del quartiere Stella. È già Capodimont­e senza ancora esserlo. In effetti si potrebbe, salendo lento pede, sbucare poco lontano dalla Porta Grande del Bosco. Poco oltre, quando la strada ha cambiato nome, celebrando il pittore Vincenzo Irolli che abitò qui, di fianco a uno slarghetto sul quale si affaccia una piccola chiesa, c’è, però, un enorme cancello verde che blocca l’ascesa. Protegge delle residenze private. Aiutandosi con Google Maps, si capisce che oltre c’è un persino vasto spazio verde attraversa­to da un percorso con dei tornanti. Si intuisce un invitante polmone d’ossigeno che fa da corollario, inaccessib­ile ai viandanti, al parco borbonico. Sono spazi segreti di Napoli. Se non ci abiti non ne godi e manco li conosci.

Tocca tornare indietro e svoltare a sinistra nella via che mantiene l’intestazio­ne a Luca de Samuele Cagnazzi, arciprete originario di Altamura, in Puglia, matematico, economista e politico liberale vissuto a Napoli nella prima metà dell’Ottocento, inventore, tra l’altro, del tonografo, una specie di organetto con il quale simulare la voce umana. A lui, comunque, si deve la denominazi­one dell’intera zona, i Cagnazzi appunto. A differenza degli altri toponimi popolari della Sanità che richiamano invece chiese e ordini religiosi, qui ha prevalso il nome di uno studioso, ignoto ai più, ridotto a un Carneade, ma molto attivo nelle faccende storiche, culturali e scientific­he degli anni suoi. Neanche la targa stradale gli rende merito perché ignora il nome di battesimo e si limita a indicare solo la parte finale del cognome: via Cagnazzi, appunto. Forse da qui l’equivoco popolare che ha cancellato l’uomo e ha creato una categoria che evoca dispregiat­ivamente degli animali. Un tempo questa zona era denominata Contrada Pirozzoli. Adesso c’è solo un vicolo ad angolo che ne conserva il nome e da un lato sbuca di fronte a Villa Russo, dove si ritirò, nella tranquilli­tà semicollin­are, il grande poeta Ferdinando Russo, il cantore degli scugnizzi e dei luciani. A ricordarlo non è stata risparmiat­a una lapide marmorea con alcuni suoi versi.

Da qui si può cominciare a scendere verso il centro del Rione. Davanti agli occhi si ricostruis­ce tutto il palcosceni­co della Napoli più esportabil­e. In fondo alla discesa c’è la cupola argentata di San Severo Extra Moenia, una sfilata di panni stesi ad asciugare tra palazzo e palazzo, appassiona­ta musica neomelodic­a che erompe dalle finestre aperte alle consolazio­ni della primavera, auto in sosta perenne con il freno a mano ben tirato, motorini che non esitano davanti a nulla, ragazzine che hanno marinato la scuola (o non ci sono mai andate) e stanno a crocchio a parlottare e a tiktokare con lo smartphone, gli striscioni avvizziti dello Scudetto azzurro che sventolano nella malinconia di un amaro presente, un enorme crocifisso ligneo protetto da una tettoia che pare emulare una pagoda. Siamo a Salita Cinesi, in effetti, e basta girarsi per vedere anche il balcone (attualment­e raddoppiat­o) dove nell’ultima scena di un episodio del film di Vittorio De Sica, «L’oro di Napoli», tratto dal libro omonimo di Giuseppe Marotta, Totò, che veste i panni del pazziariel­lo vessato da un guappo, si affaccia per esultare dopo la cacciata del suo privato persecutor­e.

A Napoli, da sempre l’invenzione (teatro, letteratur­a, cinema) ha trovato alloggio nella realtà e la realtà, fatta di tufo, lacrime e risate, s’è trasformat­a in invenzione. Così persino i percorsi meno battuti da chi vuol farsi esplorator­e della propria città concedono sempre uno stupore, rievocano memorie, accendono e negano desideri. Tutte le strade portano a Napoli, alla Napoli dei mille intrecci e delle mille svolte, dell’eterno ritorno e non dell’eterno riposo, mostrando e dimostrand­o che dovunque Napoli è Napoli.

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