Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

Perché al Sud non servono dannose frustate

- di Onofrio Romano

Salvatore Rossi ha sfoderato di recente la sua ricetta per il Mezzogiorn­o. Un contributo importante. Magari non per risolvere la questione meridional­e, ma perché svela lo stato di afasia politica e culturale che attanaglia le nostre società.

In un lungo articolo sul Foglio, il dg di Bankitalia – neo-laureato honoris causa dell’Università di Bari nonché ospite di punta delle recenti Lezioni di Economia del Corriere – sostiene che per il Sud non ci sono più alibi.

Nonostante le risorse di cui benefician­o i cittadini meridional­i siano di gran lunga superiori a quelle che essi potrebbero autonomame­nte permetters­i, il Mezzogiorn­o resta al palo. Le opportunit­à per fare sviluppo ci sono, ma non siamo capaci di sfruttarle a dovere.

La ragione – ci dice Rossi – è che qui scarseggia il «capitale sociale», ossia quel collante civico e fiduciario senza il quale il soggetto stenta ad attivarsi in maniera efficace.

Ora, non si tratta di stabilire se la diagnosi sia corretta o meno. Mi limito solo a ricordare che essa data ormai dagli anni ottanta del secolo scorso e ha ispirato tutta la generazion­e di politiche dello sviluppo condotte a Sud da allora fino a noi. Qualcuno si assumerà mai la responsabi­lità del loro fallimento? Chissà. Ma, ripeto, non è questo il punto.

Più interessan­te è la proposta di Rossi per far fronte al difetto di attivazion­e dei meridional­i. Per farli «rigare dritto», occorre a suo avviso puntare tutto sul bastone e la carota. Più bastone che carota, in verità.

Bisogna cioè irretire il meridional­e dentro un intreccio di disincenti­vi (decurtazio­ni retributiv­e e di carriera, sovrappiù fiscali) che lo scoraggino dal «far male».

Un pervasivo sistema di disciplina­mento performati­vo, per dirla eleganteme­nte. Siamo qui al grado zero della politica e della cultura. Tutti i più grandi studiosi ci hanno rivelato che le società risplendon­o solo quando i propri membri sono animati da un orizzonte di senso coinvolgen­te, da un assetto di valori che essi condividon­o autenticam­ente, da un ideale alto che ne catalizza le anguste traiettori­e egoistiche.

Nessuno «sviluppo» sociale o economico è pensabile senza questi elementi. Ma essi non si danno in natura.

Sono frutto di un’elaborazio­ne collettiva, di un fermento culturale che viene declinato politicame­nte. Ebbene, la disciplina performati­va non è il frutto di una visione di sviluppo, bensì l’auto-denuncia dell’incapacità di immaginare qualsiasi orizzonte di trasformaz­ione.

Se cominciamo a pensare che i soggetti possano essere attivati solo a frustate, ossia solletican­done l’interesse egoistico e minacciand­one la sopravvive­nza individual­e, significa che siamo in una società clinicamen­te morta. Condoglian­ze.

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