Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

REGIONI E SPINTE AUTONOMIST­E LA POLITICA BATTA UN COLPO

- di Giuseppe Galasso

Curioso paese, l’Italia! Prendete il caso delle Regioni. I poteri e le facoltà per esse proposti nella Costituzio­ne si sono andati via via ampliando, mentre si è avuto un certo indubbio radicarsi dell’istituzion­e regionale, per cui oggi non si può più considerar­e la Regione tra le istituzion­i italiane meno in vista nell’informazio­ne e nella sensibilit­à dei cittadini, come fino a qualche tempo fa.

Questo radicament­o delle Regioni è stato dovuto al fatto che esse hanno corrispost­o in pieno ai loro compiti costituzio­nali? La risposta è sicurament­e negativa. Tutti sanno che quello costituzio­nale è un disegno leggero della fisionomia dell’istituto regionale, mentre quello che ha di fatto preso piede non lo è affatto. Si dice in sintesi che, invece di avere una sola Roma, ne abbiamo adesso venti, una per regione, data la struttura pesante assunta dalle istituzion­i regionali, che non hanno sveltito, ma soltanto riprodotto il modello romano.

Ancor più negativa è la risposta prevalente sulla qualità del servizio pubblico fornito dalle Regioni in ogni campo, a cominciare da quello sanitario. Che cosa non si è detto, in tutti questi anni, nel campo sanitario, a carico delle Regioni!

Se ne sono dette tante da far apparire, tutto sommato, meno grave la stessa accusa di un enorme spreco di soldi pubblici. E non parliamo della deprecazio­ne dei costi della burocrazia regionale, o della pretesa (soddisfatt­a!) dei consiglier­i regionali di avere lo stesso trattament­o (indennità e altro) dei parlamenta­ri senatori e deputati a Roma.

Certo, alcune di queste imputazion­i non erano fondate. Per la sanità, ad esempio, molte colpe sono da riportare alla cattiva concezione o prassi del servizio e dell’amministra­zione sanitaria ai livelli centrali (governo e ministeri), per non parlare della cattiva qualità delle infinite leggi e riforme che si susseguono senza sosta. Nessun dubbio vi è, però, anche che la cattiva stampa delle Regioni in Italia non sia per nulla il frutto di un pregiudizi­o sociale o di una congiura mediatica. Nessun dubbio che sia, invece, il risultato di un’esperienza diretta e sofferta della massima parte dei cittadini italiani. Né ha retto oltre un certo limite, pur essendovi molte cose innegabili, la distinzion­e fra «Regioni buone» (al Nord) e «Regioni cattive» (al Sud) con polemiche spesso pretestuos­e (lo si vede specie nel caso di De Luca e di Emiliano), che si fanno ancora oggi, ma sempre meno e con argomenti piuttosto ripetitivi. E perciò già ben presto si cominciò a parlare sempre più spesso di un «fallimento» delle Regioni, e le loro difese apparvero sempre meno persuasive e stringenti delle relative imputazion­i. E certo è che l’Italia è rimasta a tutt’oggi un paese di città molto più che un paese di regioni.

Tuttavia, quale rimedio vi fu al riguardo? Fu sempliceme­nte il progressiv­o ampliament­o dei poteri delle Regioni. Anzi, alla fine degli anni ’80 cominciò una litania su un passaggio dell’Italia a un regime federale, a base regionale, con un vero e proprio cedimento alle pressioni secessioni­stiche della Lega Nord, di cui poi non si parlò più. Ecco però nascere oggi, coi referendum di Veneto e Lombardia, la proposta di tenere referendum simili per una maggiore autonomia in tutte le altre Regioni, che è di fatto una pulsione federalist­ica o implicita o inconsapev­ole.

Questa ripresa si è avuta perché il giudizio sulle Regioni è cambiato da negativo in positivo? Nessuno potrebbe dirlo. Oppure perché esse si sono più radicate nel paese sul piano etico-politico, ossia sul piano dei sentimenti civici più profondi di appartenen­za morale e culturale? Lo direi ancora di meno. Anche questo nuovo autonomism­o nasce o con lo sguardo rivolto al passato, a quel che si presume di essere stati nel passato (la Lombardia austro-asburgica, la Serenissim­a a Venezia) o nasce sulla base di un gretto «sacro egoismo» localistic­o («il frutto delle nostre tasse è nostro, e guai a chi ce lo tocca», come si dice al Nord). Il Sud partecipa del primo motivo in base a una mitologica, irrealisti­ca, fuorviante e adulterata immagine del periodo borbonico. Non partecipa, invece, né lo potrebbe, al secondo motivo: anzi, si appella ai doveri costituzio­nali della solidariet­à nazionale (italiana) per la ripartizio­ne delle risorse disponibil­i nell’insieme del paese; ed è un suo merito di non aver mai ceduto (neppure i cosiddetti neoborboni­ci) a tentazioni secessioni­stiche.

Non è un curioso paese l’Italia? Nessuno può, da gran tempo, pensare a passi indietro sul ruolo delle Regioni. Sia il buon senso, sia la forza di idee indispensa­bili alla politica, spingono, invece, a scommetter­e sempre più su di esse come moderne articolazi­oni del sistema liberal-democratic­o, secondo il sogno che fu già di una parte del nostro Risorgimen­to, anche in un paese di vecchia tendenza accentratr­ice qual è l’Italia. Quanto, però, alle maggiori autonomie, la classe politica a ogni livello, a partire da quella nazionale, dovrebbe porsi sull’attuale, effettiva realtà politicoso­ciale e tecnico-amministra­tiva delle Regioni le domande serie e profonde che sono necessarie da gran tempo, poiché è certo che tale realtà non dà, alla richiesta di un allargamen­to dei poteri regionali, un senso facilmente accettabil­e.

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