Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
REGIONI E SPINTE AUTONOMISTE LA POLITICA BATTA UN COLPO
Curioso paese, l’Italia! Prendete il caso delle Regioni. I poteri e le facoltà per esse proposti nella Costituzione si sono andati via via ampliando, mentre si è avuto un certo indubbio radicarsi dell’istituzione regionale, per cui oggi non si può più considerare la Regione tra le istituzioni italiane meno in vista nell’informazione e nella sensibilità dei cittadini, come fino a qualche tempo fa.
Questo radicamento delle Regioni è stato dovuto al fatto che esse hanno corrisposto in pieno ai loro compiti costituzionali? La risposta è sicuramente negativa. Tutti sanno che quello costituzionale è un disegno leggero della fisionomia dell’istituto regionale, mentre quello che ha di fatto preso piede non lo è affatto. Si dice in sintesi che, invece di avere una sola Roma, ne abbiamo adesso venti, una per regione, data la struttura pesante assunta dalle istituzioni regionali, che non hanno sveltito, ma soltanto riprodotto il modello romano.
Ancor più negativa è la risposta prevalente sulla qualità del servizio pubblico fornito dalle Regioni in ogni campo, a cominciare da quello sanitario. Che cosa non si è detto, in tutti questi anni, nel campo sanitario, a carico delle Regioni!
Se ne sono dette tante da far apparire, tutto sommato, meno grave la stessa accusa di un enorme spreco di soldi pubblici. E non parliamo della deprecazione dei costi della burocrazia regionale, o della pretesa (soddisfatta!) dei consiglieri regionali di avere lo stesso trattamento (indennità e altro) dei parlamentari senatori e deputati a Roma.
Certo, alcune di queste imputazioni non erano fondate. Per la sanità, ad esempio, molte colpe sono da riportare alla cattiva concezione o prassi del servizio e dell’amministrazione sanitaria ai livelli centrali (governo e ministeri), per non parlare della cattiva qualità delle infinite leggi e riforme che si susseguono senza sosta. Nessun dubbio vi è, però, anche che la cattiva stampa delle Regioni in Italia non sia per nulla il frutto di un pregiudizio sociale o di una congiura mediatica. Nessun dubbio che sia, invece, il risultato di un’esperienza diretta e sofferta della massima parte dei cittadini italiani. Né ha retto oltre un certo limite, pur essendovi molte cose innegabili, la distinzione fra «Regioni buone» (al Nord) e «Regioni cattive» (al Sud) con polemiche spesso pretestuose (lo si vede specie nel caso di De Luca e di Emiliano), che si fanno ancora oggi, ma sempre meno e con argomenti piuttosto ripetitivi. E perciò già ben presto si cominciò a parlare sempre più spesso di un «fallimento» delle Regioni, e le loro difese apparvero sempre meno persuasive e stringenti delle relative imputazioni. E certo è che l’Italia è rimasta a tutt’oggi un paese di città molto più che un paese di regioni.
Tuttavia, quale rimedio vi fu al riguardo? Fu semplicemente il progressivo ampliamento dei poteri delle Regioni. Anzi, alla fine degli anni ’80 cominciò una litania su un passaggio dell’Italia a un regime federale, a base regionale, con un vero e proprio cedimento alle pressioni secessionistiche della Lega Nord, di cui poi non si parlò più. Ecco però nascere oggi, coi referendum di Veneto e Lombardia, la proposta di tenere referendum simili per una maggiore autonomia in tutte le altre Regioni, che è di fatto una pulsione federalistica o implicita o inconsapevole.
Questa ripresa si è avuta perché il giudizio sulle Regioni è cambiato da negativo in positivo? Nessuno potrebbe dirlo. Oppure perché esse si sono più radicate nel paese sul piano etico-politico, ossia sul piano dei sentimenti civici più profondi di appartenenza morale e culturale? Lo direi ancora di meno. Anche questo nuovo autonomismo nasce o con lo sguardo rivolto al passato, a quel che si presume di essere stati nel passato (la Lombardia austro-asburgica, la Serenissima a Venezia) o nasce sulla base di un gretto «sacro egoismo» localistico («il frutto delle nostre tasse è nostro, e guai a chi ce lo tocca», come si dice al Nord). Il Sud partecipa del primo motivo in base a una mitologica, irrealistica, fuorviante e adulterata immagine del periodo borbonico. Non partecipa, invece, né lo potrebbe, al secondo motivo: anzi, si appella ai doveri costituzionali della solidarietà nazionale (italiana) per la ripartizione delle risorse disponibili nell’insieme del paese; ed è un suo merito di non aver mai ceduto (neppure i cosiddetti neoborbonici) a tentazioni secessionistiche.
Non è un curioso paese l’Italia? Nessuno può, da gran tempo, pensare a passi indietro sul ruolo delle Regioni. Sia il buon senso, sia la forza di idee indispensabili alla politica, spingono, invece, a scommettere sempre più su di esse come moderne articolazioni del sistema liberal-democratico, secondo il sogno che fu già di una parte del nostro Risorgimento, anche in un paese di vecchia tendenza accentratrice qual è l’Italia. Quanto, però, alle maggiori autonomie, la classe politica a ogni livello, a partire da quella nazionale, dovrebbe porsi sull’attuale, effettiva realtà politicosociale e tecnico-amministrativa delle Regioni le domande serie e profonde che sono necessarie da gran tempo, poiché è certo che tale realtà non dà, alla richiesta di un allargamento dei poteri regionali, un senso facilmente accettabile.