Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Idea: condividiamo l’abbigliamento
Le proposte di Greenpeace: via i veleni dai tessuti, indumenti da riciclare e clothes-sharing Finora 80 marchi hanno accettato di eliminare le sostanze tossiche: più di 50 aziende italiane
Usare tessuti riciclati ma non solo. Realizzare vestiti più resistenti all’usura, proporre servizi di riparazione e ritiro degli abiti usati e inventare il clothes-sharing. È questo il profilo della moda del futuro, una moda green in grado di pensare sia allo stile che all’ambiente uscendo dall’eterno circolo del consumo «usa e getta». E così, nel mondo, in Italia, al Nord come al Sud, nei nostri armadi, la moda può diventare slow reinventando l’eleganza in maniera etica. Per questo Greenpeace ha pubblicato il rapporto «Fashion at the Crossroads» che raccoglie esempi di alternative al modello corrente di industria della moda. Soluzioni già praticate e praticabili che messe insieme aiutano a ridisegnare i confini della moda.
«L’economia circolare - afferma Chiara Campione, Senior Corporate Strategist di Greenpeace Italia - è sulla bocca di tutti, ma dietro questa bella etichetta si nasconde il sogno impossibile dell’industria che la circolarità possa risolvere il problema di un consumo eccessivo di risorse. In ogni caso dobbiamo consumare meno perché il riciclo al 100 per cento è una chimera».
Da sei anni, in effetti, Greenpeace porta avanti la campagna Detox per l’eliminazione delle sostanze chimiche pericolose dal tessile. Finora hanno aderito 80 marchi internazionali, tra i quali più di 50 realtà tessili italiane, che rappresentano il 15% della produzione tessile globale in termini di fatturato. L’associazione sostiene che questo importante risultato rischia di essere rovinato da una «economia circolare» ancora immatura in cui la produzione tessile globale continua a crescere esponenzialmente e il riciclo avviene prima di aver eliminato le sostanze chimiche pericolose.
«Il nostro scopo - continua Campione - è fornire una risposta critica all’economia circolare così come propagandata dai grandi marchi della moda. Il Pulse report, recentemente presentato al Copenaghen Fashion Summit, prefigura un futuro circolare nel quale il settore sarà ancora più dipendente dall’inquinante poliestere, senza affrontare il nodo del consumo eccessivo di capi d’abbigliamento e del conseguente calo della loro qualità e durata».
E così i nuovi pionieri della moda cercano modelli alternativi di business per ridurre l’impatto della produzione tessile e aumentare la longevità dei prodotti grazie all’idea del riciclo. L’idea di Greenpeace è che le aziende prevedano il ritiro obbligatorio dei propri prodotti a fine vita per evitare che finiscano in discarica o in un inceneritore. E se la moda è a un bivio secondo quanto si legge su Fashion at Crossroads una delle idee potrebbe partire proprio dal design. Migliorando il design dei capi realizzati si potrebbe già allungare il ciclo della vita dei vestiti incrementandone anche la qualità. Vestiti più resistenti e strategie di marketing che prevedano l’affitto, strategia che tra l’altro è in voga tra i più piccoli marchi artigianali, e un servizio di riparazione ad hoc per i clienti. In definitiva se è vero che tutte le aziende dovrebbero darsi una svegliata per rincorrere una delle caratteristiche più ricercate dai clienti, specie tra i Millennials è vero che allo stesso modo Greenpeace consiglia agli stessi consumatori di porre fine all’accumulo di vestiti negli armadi magari dando il via a una nuova strada che chissà non possa essere esplorata da innovative realtà del settore. Una sola definizione: clothes-sharing. La condivisione dei vestiti che possa permettere ai fashion addict di avere capi di ottima qualità anche con un budget ridotto e allo stesso tempo di cambiare stile di volta in volta senza dover condannare l’abito del momento a una lunga e triste vita di «non uso». E in tutto ciò anche rispondendo a un’esigenza sempre più necessaria.
«È necessario un cambio del Dna della moda - si legge nel report di Greenpeace che usi la creatività per ridisegnare percorsi futuri sostenibili. Invece di continuare col ‘business as usual’, le aziende hanno l’opportunità di creare prodotti che abbiano un valore reale e che rappresentino un’esperienza autentica per i clienti e per tutta la società».