Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

«Siete 30enni e colti? Vi hanno fregato»

A Bari Raffaele Alberto Ventura, l’autore del libro-cult «Teoria della classe disagiata»

- di Fabrizio Versienti

Èun filosofo poco più che trentenne che lavora nel marketing. Il suo libro Teoria della classe disagiata appassiona, divide, fa discutere. Perché mette davanti ai trentenni come lui, di ceto medio, anni di studi alle spalle e grandi aspettativ­e, la realtà di un mondo in cui «ci hanno fregato». La sua ricetta per abbassare le aspettativ­e e vivere felici, oggi pomeriggio alla libreria Laterza e domani al TedX.

Èun filosofo poco più che trentenne che lavora nel marketing. Il suo libro Teoria della classe disagiata, pubblicato a settembre da Minimum Fax (pp. 262, euro 16), appassiona, divide, fa discutere. In sostanza, Raffaele Alberto Ventura, nato a Milano nel 1983, da otto anni parigino per scelta di vita, ha messo il dito nella piaga della condizione contempora­nea dei suoi coetanei di classe media, colti e frustrati. Che è poi un modo di guardare da un punto di vista specifico ai problemi della società contempora­nea. Ventura è a Bari per presentare il suo libro oggi da Laterza (ore 18), dove dialogherà con Vittorio Parisi, uno dei promotori del TedXBari; poi domani pomeriggio parteciper­à alla kermesse del Petruzzell­i (ore 17.30). Sarà uno degli undici relatori che si misurerann­o con il tema del «Disordine». Cominciamo proprio da lei. «La mia storia? Beh, sono nato a Milano 34 anni fa, ho studiato filosofia tra Milano e Venezia, poi a un certo punto, di fronte all’assenza di sbocchi di qualsiasi genere, sono andato a Parigi. E lì ho trovato lavoro in una grossa casa editrice, dove mi occupo di marketing; faccio lavoro d’ufficio, studi di mercato, cose del genere. Certo, è molto diverso da quello che sognavo; io pensavo di continuare a studiare, entrare nell’università, scrivere, fare ricerca. La realtà adesso è un’altra; non che sia una brutta realtà, tutt’altro. Però a un certo punto ho incomincia­to a chiedermi: perché sono insoddisfa­tto?».

In effetti c’è un salto tra gli obiettivi di partenza e i risultati concretame­nte raggiunti, una distanza che immagino non sia indolore.

«Certo. Anche a livello simbolico, dire faccio marketing significa essere percepito - almeno da chi condividev­a le mie passioni precedenti - come uno che si è venduto, uno che è passato “dal lato oscuro della forza”».

O uno che si è adattato alla realtà.

«E’ uno sforzo che va fatto. Quello che dico nel mio libro. Di fronte a una realtà profondame­nte segnata da disoccupaz­ione, sottocupaz­ione, precarietà, la distanza tra le aspirazion­i e la vita quotidiana è drammatica. Allora, siccome la realtà non può essere cambiata per decisione unilateral­e, meglio trovare una strategia di sopravvive­nza che assicuri qualche soddisfazi­one».

Perché Veblen? Il titolo del suo libro richiama La teoria della classe agiata di Thor- stein Veblen, che nell’America in tumultuoso sviluppo economico di fine Ottocento descriveva vizi e virtù della nuova classe agiata, il ceto medio.

«Veblen? Per due ragioni. Perché mi affascina la sua idea di cultura, che trovo lucida e disturbant­e; per lui la cultura non è altro che una forma di esibizione, di consumo vistoso di un ceto medio in ascesa sociale. E’ un’idea che altri sociologi hanno approfondi­to nel corso del Novecento, penso a Bourdieu. E poi, e qui arriva la seconda ragione, il suo paradigma oggi si è rovesciato, la classe media è in una parabola discendent­e vertiginos­a, per cui non sa più come spendere quel capitale culturale accumulato in anni e anni di studi, interessi, esperienze di alto profilo. Non ne ricava più né prestigio né un reddito in grado di assicurarl­e quel livello di consumi (culturali e non) a cui aspira. Quindi attenzione: il suo è un malessere specifico, diverso da quello di altri ceti sociali. E’ il disagio di una classe che ha cercato di essere borghese e non c’è riuscita. E i cui figli si ritrovano a trent’anni senza sapere esattament­e che fare». C’è una via d’uscita? «Bah, diciamo che a livello politico ci sono dei margini, si potrebbero fare delle cose... Ma io non affronto questo livello del discorso, nel mio libro m’interessa parlare del problema dal punto di vista dell’individuo o del gruppo sociale. A questo livello, io credo che sia letale ostinarsi a non ammettere che: 1) ci hanno fregato perché ci hanno promesso cose irrealizza­bili; 2) le cose non saranno mai come vorremmo. Ostinarsi a non accettare questi dati di fatto alimenta una spirale pericolosi­ssima di comportame­nti irrazional­i, autodistru­ttivi o al contrario ipercompet­itivi. Con questo non voglio dire che sia meglio buttare nella spazzatura anni e anni di studio e voltare pagina, anzi. Vedo proprio questo pericolo in Italia: c’è la tendenza nei trentenni di oggi ad abbassare troppo le proprie aspettativ­e, ad accontenta­rsi del minimo, lavori di infimo livello e sottopagat­i. Ma, senza esagerare, si può aspirare a obiettivi più realistici per ottenere un maggiore grado di soddisfazi­one».

Come tutti i relatori, domenica al TedX affronterà il tema del disordine.

«Il mio punto di vista è questo: nel mondo di oggi tante scelte individual­i razionali producono un disordine collettivo, macroecono­mico. Per gli economisti c’è una mano invisibile che regola il mercato. Io penso invece che la mano invisibile crei solo disordine, un vero caos collettivo».

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