Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
«Figlio mio ti denuncio»
Non perché non lo sia, un esempio. Ma perché deve farci riflettere su quell’abisso di amore di gioia e di dolore che è la maternità, in generale l’essere genitori. Doversi trovare ogni giorno a decidere per un figlio bambino prima, poi una volta diventato adulto accompagnarne ogni momento da lontano, spettatore sempre mal sopportato, guardiano ansioso di camere vuote, custode di una lampada accesa fino all’alba. Il tempo dell’attesa è quello dei genitori. Quell’ansia produce modelli spesso terribili: quelli di genitori che alla prima difficoltà del figlio a scuola corrono ad insultare e aggredire gli insegnanti. Essere «perbene» non è glamour, non ti fa duro, non fa di un ragazzo niente di simile ai modelli proposti da youtuber sfaccendati, serie tv su camorristi affascinanti, cinema oltre ogni limite, televisione guardona di grandi fratelli amici e fattori X ed Y che stanno seminando diserbanti nelle coscienze collettive giovanili, fino a farne un deserto. «Infame» è la parola con cui in questo universo narrativo viene definita una persona che denuncia un delitto e chi lo ha commesso. Questa mamma non ha avuto paura. Ha consegnato suo figlio alla galera. Gli ha evitato di morire ammazzato forse. Una madre che non ci chiede nulla. Che non si propone come esempio. Che ci racconta la grande bellezza di certe donne che sanno trasformare il dolore in vita, come quando partoriscono.