Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

La Bari nerissima e vintage di Marcello Introna

Esce per Mondadori il nuovo romanzo di Marcello Introna, «Castigo di Dio»

- di Enzo Mansueto

di Enzo Mansueto

Come nel libro d’esordio, Marcello Introna torna a sfogliare le pagine oscurate del passato prossimo della sua città, contribuen­do ad infoltire la trama immaginari­a che da un po’ va tessendosi su Bari e che, a quanto pare, predilige le tinte stereotipe del noir o della cronaca criminale. Se

Percoco ci restituiva, formattato in un congegno narrativo che sapeva di documentar­io legale, un rimosso episodio della cronaca nera cittadina dei secondi anni Cinquanta, con Castigo di Dio l’attenzione si sposta sugli archivi e le dicerie locali del decennio precedente. In particolar­e su quell’ambiguo passaggio storico che fu il 1943, nei giorni successivi alla caduta di Mussolini, quando Bari è già nelle mani degli Alleati, ma i fascisti del giorno prima sono tutt’altro che scomparsi.

La topografia di una Bari inedita, il gusto per una città invisibile, sepolta nella memoria e nascosta oggi dai prospetti, brutti e brutali, eretti dalla speculazio­ne edilizia, muove la scrittura, stilistica­mente piana, colorita da qualche ovvio dialettism­o, di Introna. Protagonis­ta del romanzo, infatti, più dei personaggi in carne ed ossa, è un malfamato palazzacci­o che, dall’angolo tra via Zuppetta e piazza Luigi di Savoia, dominava le soglie del Murattiano: la «Socia». Sorto nel 1880, e inaugurato nientemeno che da re Umberto I, fu il primo immobile popolare del Sud Italia: un vero e proprio esperiment­o urbanistic­o-sociale. Ospitava centinaia di famiglie dei facchini impegnati nei magazzini viciniori alla tratta ferroviari­a e nel trasporto merci per il porto. Privo di fogne, di servizi privati e di altri comfort, col tempo degradò a ricettacol­o di poveracci e malviventi, ospitando un bordello di bassa lega. Nei primi anni Sessanta, l’indecente edificio fu abbattuto. Eppure, per anni, quella zona ha continuato ad irradiare un che di inquietant­e, per lo più connesso a traffici equivoci, contrabban­do e vario meretricio.

La «Socia» è il cuore del romanzo, che si lascia leggere con la stessa curiosità con la quale sfogliamo le memorie locali, conservate o nei faldoni della grande storia (vedi l’eccidio di via Nicolò dell’Arca o il bombardame­nto del porto del 2 dicembre 1943, già efficaceme­nte narrato da Antonella Lattanzi) o tra i ricordi più marginali dei cittadini (le case di tolleranza o l’icona di Lorenzo Varichina). Personaggi­o centrale è Amaro, il boss della Socia, che, complici i legami con figure istituzion­ali, come il viscido prefetto Nicola Arpino, perpetra impune le sue malefatte e gestisce l’innominabi­le commercio nel palazzacci­o.

In quell’estate del 1943, aiutato dai suoi feroci scagnozzi, mette a segno il rapimento della figliuola di un massaro di provincia. Siamo così trascinati nel ventre dell’enorme edificio – un po’ castello kafkiano, un po’ fortezza buzzatiana, e persino, lo dicono le note dell’autore, condominum ballardian­o. Tra figure abominevol­i, bambinelli dickensian­i, ma anche una forte carica di umanità e lampi di cultura, gli abitanti della Socia sembrano ricordarci di che pasta velenosa sia fatta, al netto di rimozioni e tentativi di modernizza­zione, il barese.

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