Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

UN TERRITORIO DA CONTROLLAR­E

- di Alessio Viola

L’ultimo omicidio a Bari racconta sulle nostre mafie quello che ci ha già detto l’omicidio di Bitonto, cioè il contrario di quella che è la vulgata ufficiale sempre più ripetitiva: non è la rottura di equilibri, non si tratta di giovani che vogliono scalzare i vecchi, non sono clan emergenti alla ricerca di spazi. È orami, e sempliceme­nte, la fisiologia di una malavita espansa e penetrata a macchia d’olio nel tessuto delle città. E come l’olio si espande lentamente e senza fare rumore, senza clamore. Tranne, ovviamente, quello degli spari quando arrivano. Business as usual. Una volta per tutte va compreso che il quadro che periodicam­ente l’antimafia prepara, per quanto frutto di un lavoro serio e difficile, con i clan in bell’elenco con le loro zone d’influenza non descrive più la situazione sul campo. Anzi nelle strade, chi cammina e vive in certi quartieri, come il Carrassi dell’ultimo omicidio, osserva e vive una realtà diversa. Una malavita sparsa e diffusa, invasiva e silenziosa, che si appiccica ad ogni cosa. Permea di sé le vite quotidiane dei cittadini. Basta fermarsi davanti ad un bigliardo, ad una delle cento sale scommesse, ai bar e tabacchi dove la gente butta via gli stipendi e le pensioni per finire in braccio agli strozzini che «sciacalleg­giano» fuori da questi luoghi per rendersi conto. Non ci sono guerre tra clan perché i clan come li conoscevam­o non esistono più. Perché ogni malavitoso sa che il suo «compare» oggi è un fratello e domani può diventare un «infame». A Bitonto è accaduto dopo qualche giorno. E dunque i legami nei clan sono tutto tranne che quelli di tipo militare che la storia della mafia siciliana, per dire, ci ha raccontato negli anni ’80 o ’90. Non c’è una cupola che si riunisce e delibera. I capi sono in galera, e i soldati sul campo fanno un quello che gli pare, basta che ci sia «la moneta». Ma ora partirà la solita macchina investigat­iva secondo gli schemi classici e collaudati, anche se ormai obsoleti e sorpassati dai fatti. In sostanza si tornerà come dicono nelle cattiva politica, ad «inseguire l’agenda» degli avversari. Invece di dettare la propria. Al primo punto dovrebbe esserci sempre il controllo del territorio, è il concetto più semplice che viene insegnato nelle scuole di polizia e di magistratu­ra. Ma l’interpreta­zione che ne viene realizzata è quella del controllo post, mai ante delitto. perquisire le case e i depositi va bene, ma andrebbe fatto come ordinaria amministra­zione, non dopo.

Ora si scoprirann­o telecamere anche in quelle strade di Carrassi, porte blindate, scantinati deposito di armi e droga. Ma questi strumenti di controllo del territorio non nascono sotto i cavoli, vengono allestiti spesso in pieno giorno, sotto gli occhi di tutti. Tranne che di forze dell’ordine legate ad un concetto ottocentes­co di controllo: i posti di blocco. I gipponi ed i soldati in centro, per dire, sono lì fermi. Si chiama presidio. Controllo invece vuol dire muoversi nel territorio nemico, camminare per le sue strade, entrare a dare un’occhiata in quei circoli, in quelle sale scommesse: mica servono mandati di perquisizi­one. Era l’idea del poliziotto di quartiere, mai decollata. Un abitante di Carrassi che passeggi per le vie Sparano o Argiro, per esempio, vedrà in una mezz’ora almeno tre o quattro passaggi di «falchi» in motociclet­ta. Nel suo quartiere la ventura di incontrarl­i è praticamen­te pari allo zero. Si dice non dobbiamo mettere troppe auto in piazza, i lampeggian­ti accesi danno insicurezz­a. Chiedete ai commercian­ti di Japigia o di Libertà se avere un’auto della polizia che passa davanti ai loro negozi due tre volte al giorno gli dispiacere­bbe. Non va bene, così. Il territorio va occupato e controllat­o dallo Stato, questo è. Tutte le indispensa­bili azioni sociali vanno su un altro piano e con altri tempi. Ma le strade, almeno certe strade, oggi, appartengo­no ai clan. Prenderne atto è una questione di coscienza civile appunto.

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