Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

Anche una gru per evadere Fallisce il tentativo del boss

- di Angela Balenzano

Due fili diamantati per segare le sbarre della cella e una fuga sui tetti fino a raggiunger­e le mura perimetral­i dove due detenuti avrebbero trovato il cestello di un carrello elevatore che avrebbe regalato loro la libertà: era questo il piano per far fuggire dal carcere di Foggia l’uomo del clan Romito (boss ucciso nella strage di San Marco in Lamis) Antonio Quitadamo, 42 anni , e il suo gregario Hechmi Hdiovech. L’evasione doveva avvenire a Capodanno ed è stata sventata dai finanzieri.

Fili diamantati per segare le sbarre della cella e fuggire dal carcere di Foggia. È così che il capo cosca della famiglia Romito, Antonio Quitadamo, 42 anni e un suo gregario, la notte di Capodanno del 2018 avrebbero dovuto evadere. Approfitta­ndo del giorno in cui il numero degli agenti penitenzia­ri è inferiore. Una volta usciti dalla cella numero 3, in cui sono detenuti alcuni esponenti della mala garganica, i due avrebbero dovuto raggiunger­e il tetto di un capannone interno del carcere e poi saltare su un cestello collegato al braccio telescopic­o di una gru posizionat­a all’esterno del penitenzia­rio. Una fuga spettacola­re sventata dalla guardia di finanza che in quel periodo stava intercetta­ndo alcuni detenuti che, grazie a telefoni cellulari entrati furtivamen­te in carcere, continuava­no a dare ordini ai gregari e a gestire l’ingente traffico di sostanze stupefacen­ti, il reperiment­o delle armi e per finire il progetto di evasione.

Undici le misure cautelari (tra cui due donne che avrebbero partecipat­o al progetto per l’evasione) disposte dal gip del tribunale di Foggia su richiesta della procura eseguite nei confronti di esponenti vicini alla cosca criminale il cui capo, il super boss Mario Luciano Romito, è stato assassinat­o a San Marco in Lamis il 9 agosto scorso (per tre volte in passato gli avversari avevano tentato di eliminarlo) insieme al cognato, Matteo De Palma ad Apricena. Un agguato in cui furono uccisi anche due fratelli agricoltor­i, Luigi e Aurelio Luciani, perché testimoni inconsapev­oli della sanguinosa sparatoria. L’inchiesta della finanza (ribattezza­ta «Nel nome del padre») era stata avviata subito dopo la morte del boss Romito e in seguito ad una conversazi­one dell’11 ottobre 2017 fra tre detenuti e un referente esterno, affiliato al clan, che stavano pianifican­do il modo per introdurre in carcere un’arma per ammazzare un altro detenuto. È in questo modo che gli investigat­ori hanno scoperto il progetto di fuga di Quitadamo, detto «Baffino», organizzat­o da una serie di fiancheggi­atori esterni, tutti vicini all’organizzaz­ione criminale. In particolar­e il 29 dicembre scorso all’interno della sala colloqui del carcere di Foggia, la guardia di finanza (con la collaboraz­ione della polizia penitenzia­ria) sequestrò i fili diamantati, chiamati in gergo «capelli d’angelo», nascosti nella cerniera di una borsa. Quei fili erano - così come è stato accertato - tecnicamen­te idonei a segare le sbarre della cella in cui era detenuto il boss. Nell’inchiesta della procura di Foggia vengono contestate il traffico di sostanze stupefacen­ti, la detenzione di armi clandestin­e e il progetto di evasione dal carcere. Fulcro dell’inchiesta è la guerra tra i Romito e le cosche dell’Alto Tavoliere per il controllo del territorio e la gestione del traffico di droga fiorente tra Gargano e Albania.Il boss Romito, ucciso sei giorni dopo la sua scarcerazi­one, avrebbe pagato con la vita la voglia di espandersi.

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