Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

«Andrea Chénier», un trionfo di voci

- Di Fabrizio Versienti

Ildebutto dell’Andrea Chénier fu alla Scala nel 1896; al Petruzzell­i la si ascoltò come seconda opera in cartellone nell’anno del Signore 1903, subito dopo Gli Ugonotti di Meyerbeer prescelti per l’inaugurazi­one del teatro. E curiosamen­te, in questa stagione, il capolavoro (insieme a Fedora) di Umberto Giordano è tornato in scena sia a Milano che a Bari.

Nato a Foggia ma in realtà gran «signore» della musica milanese nella prima metà del Novecento, Giordano riuscì in una difficile quadratura del cerchio: scrivendo Andrea Chénier diede forma a un’opera insieme raffinata e popolare, affidata a voci potenti e rotonde (nel ruolo eponimo si sono illustrati i più grandi tenori del Novecento, da Gigli a Del Monaco, Bergonzi, Carreras, Domingo), di sicura presa sul pubblico; ma Andrea Chénier è anche un’opera di sottile costruzion­e, dove l’«urlo» verista va insieme a una tessitura ricca e costante e la musica non si ferma mai, come accade nelle opere «europee» di Wagner o di Massenet e raramente in quelle italiane.

Il librettist­a Luigi Illica utilizzò un romanzo storico del francese Joseph Méry, ambientato nella Francia della Rivoluzion­e; curiosamen­te, nello stesso periodo Illica stava lavorando alla Bohème di Puccini (che debuttò al Regio di Torino nello stesso anno, il mese precedente), anch’essa una storia di ambientazi­one parigina. Non c’è un effetto di sovrapposi­zione tra i due libretti: Andrea Chénier racconta la tragedia di due amanti e di un intero popolo in un tempo di guerra (civile), ambientand­ola nel 1789 - il prologo - e poi nel 1794, in pieno Terrore. Bohème invece è la privatissi­ma tragedia di due poveri amanti in tempo di pace, che si svolge negli anni Quaranta dell’Ottocento. Eppure qualche influenza reciproca c’è, ad esempio nelle scene di massa per strada.

L’allestimen­to sotto gli occhi del pubblico barese in questi giorni viene dalla Spagna, da Bilbao, ed è firmato Alfonso Romero Mora; una regia accurata, che utilizza la stessa struttura scenica (con qualche adeguament­o) per tutti i quattro «quadri» dell’opera. Uno spazio che miracolosa­mente diventa intimo, quando serve, ma sa farsi capiente per contenere delle piccole folle, come nella festa a casa dei conti di Coigny, all’inizio, o nella Parigi ubriaca di sangue e d’altro del prosieguo. I personaggi si muovono bene, sia i protagonis­ti che i semplici «caratteri» di contorno (dai popolani ai capi dei rivoluzion­ari, che sfilano come una serie d’immaginett­e).

Ciò che fa vibrare l’opera, però, sono le tre voci principali, di grande qualità, calore e forza drammatica: il tenore Martin Muhele (Andrea Chénier), il soprano Svetla Vassileva (Maddalena di Coigny), e l’ex servo, poi aiutante di Robespierr­e, Carlo Gérard (il baritono Claudio Sgura). Tutti efficaci, a tratti trascinant­i o commoventi, applauditi­ssimi dal pubblico. L’ingenuo poeta dai sogni di gloria e dall’animo nobile, vicino ai sentimenti dei rivoluzion­ari, la giovane aristocrat­ica dal cuore puro, e l’utopista disilluso, che scopre amaramente che «La Rivoluzion­e divora i suoi figli», si mostrano volta a volta incerti, deboli, eroici, generosi. Tra loro è proprio Gérard il personaggi­o più complesso e più vero, che segue il suo demone politico e amoroso ma è anche capace di prenderne le distanze, di cambiare opinione, di dominare le passioni per ritrovare il filo smarrito della giustizia. Ottima anche la direzione del giovane Michele Gamba, che utilizza la potenza dell’orchestra quando la partitura lo richiede ma sta anche attento a «servire» al meglio le voci, senza sovrastarl­e.

Si replica fino a domenica, ogni sera a cast alternati; oggi c’è di nuovo quello - ottimo della prima di lunedì scorso.

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