Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Quando una casa racconta chi siamo
La psicologa e scrittrice si rifugia nei suoi amati trulli «In Puglia abitazioni semplici, destinate all’accoglienza»
Le case portano l’impronta di chi le abita. In qualche modo ci precedono, di sicuro ci sopravvivono. Ci descrivono meglio di qualunque altra cosa. Negli oggetti che scegliamo (o accumuliamo), nel disordine che lasciamo, nella polvere – sì, anche in quella – la sciatteria o l’ordine ossessivo, i fiori che non mancano mai o che mancano sempre, le cose di famiglia, se sappiamo conservarle o se ce ne sbarazziamo, anche quello è un modo per descriverci, gli arredi nuovi di pacca, l’antiquariato spinto, il design, se il gusto è personale o solo scopiazzato.
George Perec ha scritto che il tempo consuma anche gli spazi, li distrugge, gli spazi non sono mai nostri e niente somiglia più a quello che era, nemmeno la casa dove siamo nati. E forse scrivere di spazi, descrivere le case, anche attraverso quegli elenchi vertiginosi di oggetti, di tutte le cose che abitano nelle case, quello è un modo per cercare meticolosamente di trattenere qualcosa, di far sopravvivere qualcosa.
Quanto una casa è in grado di rivelare chi siamo? «Enormemente», dice Donatella Caprioglio, scrittrice, psicologa e psicoanalista infantile che al tema ha dedicato un libro, Il cuore delle case (ed. Il Punto d’incontro). «Ho visto case piene di oggetti e vuote di ogni fantasia — dice —, case piene di libri con frigoriferi vuoti, case con frigoriferi pieni e senza neanche un fiore. Case in cui ci si sente stranieri quanto il proprietario e non si sa mai dove sedersi, case indifferenti agli altri e case senza pace. Case di apparenza come maschera a una paura. Case perfette che hanno orrore delle imperfezioni, case mai finite per un’angoscia di affermazione».
In questo viaggio interiore nel cuore delle case, Caprioglio ha messo molto di sé. Nata a Venezia, vive tra Parigi, dove insegna all’Università di Bobigny, Parigi 3, e all’Ecole d’Architecture La Villette, Treviso, dove ha una figlia e un nipote, e la Puglia dove, anni fa, in un borgo antico nell’Alto Salento, in un trullo invaso dal sole e circondato da terra fertile, ha trovato il suo rifugio. «È stata una scoperta casuale. Ero alla ricerca di pareti solide, di uno spazio fisico che mi emozionasse e che potesse diventare il posto dell’anima. Cercando di casa in casa, città in città, l’ho trovato qui», dice. Ma esiste un’anima pugliese delle case? «In qualunque luogo si vada, c’è un’influenza non solo culturale, ma che proviene dall’utilizzo del materiale e dai colori. L’anima pugliese l’ho sentita nella pietra e nel bianco purificante della calce. E poi ci sono le mura spesse, come in nessun altro posto. Quelle mura danno il senso della solidità di una terra che ha radici molto forti. Solidità e naturalezza sono due cose che non puoi contraffare». E poi c’è l’accoglienza. «Le case pugliesi sono già destinate a questo: semplici, legate alla terra, grandi pergolati. Questa è la forza principale, qui è molto facile accogliere gli amici. L’accoglienza è prioritaria, quando altrove prevale invece l’apparenza».
Gli spazi delle case e l’architettura interiore. Perché una casa non è solo spazialità fatta di metri quadrati, risponde sempre alla ricerca di altro. «Abitare le case è abitare se stessi, ormai non si può prescindere», dice Caprioglio, che sul senso delle case tiene conferenze ovunque, e al Salone del Mobile di Milano terrà corsi di home therapy per conto di Gessi Academy. «Ascolterò chi è alla ricerca della casa ideale, chi crede di averla trovata o chi fugge da spazi apparentemente perfetti». E perché invece in Puglia si finisce sempre per tornare? «Si torna perché non puoi lasciare una terra che ha una valenza così forte nella natura. E perché alla fine si sente sempre il bisogno delle radici».