Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Non solo decoro murattiano Bari ha una storia più lunga
Il «critico d’architettura» Nicola Signorile invita a leggere e usare la città con più attenzione
e caratteristiche degli edifici, che in nessun caso dovevano derogare al canone di un neoclassicismo da tranquilla e un po’ avara città di provincia.
Peccato, scrive Signorile, che quelle regole siano state infrante già nell’Ottocento: se nel 1826 il signor Maggi non riuscì a farsi approvare dal Comune il progetto di un palazzo sul corso Ferdinandeo (attuale corso Vittorio Emanuele) che prevedeva sulla facciata uno stravagante e tape-à-l’oeil loggiato con otto colonne doriche, già nel 1859 il palazzo Barbone (la prima costruzione del murattiano, dove adesso sorge il cosiddetto palazzo della Motta), nato in stretta osservanza degli statuti, fu ristrutturato e sopraelevato dai nuovi proprietari, i Reccia. Per tacere delle tante forzature a cavallo tra Otto e Novecento, con l’eclettismo trionfante nei palazzi costruiti nella zona umbertina, fuori dallo scacchiere murattiano, ma anche con i nuovi palazzi di via Sparano, come i due costruiti da Mincuzzi e quello della Rinascente, che sostituirono gli originali murattiani, e poi con la chiesa di San Ferdinando, il palazzo della Posta e quello della Fiat (poi facoltà di Lingue) in via Garruba. In sostanza, il murattiano iniziò molto presto a scomparire per far posto agli esempi del nuovo gusto, senza aspettare il ciclone edilizio dell’ultimo dopoguerra. E se la marea di «sostituzioni» autorizzata durante il boom degli anni Cinquanta e Sessanta travolse molto di ciò che restava, non sempre peggiorò una situazione già compromessa; piuttosto, in alcuni casi, produsse nuovo senso, continuando a scrivere la storia della cultura e delle ambizioni cittadine sia in via Sparano (vedi palazzo Laterza) sia con i nuovi manufatti in acciaio e curtain wall di vetro e lamiera firmati Chiaia-Napolitano (per tutti, l’ex palazzo Enel di via Crisanzio, attuale sede universitaria) che importavano a Bari le ultime soluzioni dell’architettura americana. Tutti esempi di un «contemporaneo» diventato già oggi un valore da preservare.
Signorile smonta quindi il mito della purezza e della bellezza murattiana, condanna la distruzione del palazzo della Gazzetta di Dioguardi ma non disprezza quello costruito da Cirillo al suo posto, liquida come un «falso» orribile e scriteriato il restauro del Petruzzelli «com’era dov’era» e respinge l’idea del vincolo totale su tutta l’area centrale della città, tale da salvaguardare i begli esempi di architettura neoclassica e moderna ma anche le tante brutture prodotte negli anni della speculazione. In sostanza, Signorile – anche attraverso le cinque interviste impossibili alla fine del volume, realizzate montando dichiarazioni degli scomparsi Gimma, Fiore, Cifarelli, Zevi e Chiaia – invita cittadini e amministratori a considerare la città come un organismo vivente che porta tutti i segni della sua storia e che non può essere congelato o, peggio, riportato a un dato momento storico. Per disegnare e vivere consapevolmente la città, ci vuole senso critico ma anche rispetto della pluralità di voci e di stili che fanno il tessuto urbano.
Sulle vicende dell’architettura a Bari nella seconda metà del ’900 pesano la selvaggia attività edilizia e la lunga gestazione del Piano di Quaroni