Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Morto a Bari l’ultimo testimone della campagna di Russia
Con la morte del 97enne Lepore scompare l’ultimo testimone barese di quella vicenda
Operazione Urano (19-26 novembre 1942) e Operazione Piccolo Saturno, nel dicembre dello stesso anno. Per noi sono titoli di pagine di storia di un passato ormai remoto e geograficamente lontano. Il tenente di artiglieria Tonino Lepore, nato il 4 giugno del 1921 e venuto a mancare a Bari pochi giorni fa, in quell’inferno però c’era stato per davvero. In quello scenario che in noi evoca oggi semplici pagine di storia, Tonino aveva sofferto pene indicibili per uscirne miracolosamente vivo. Dopo l’addestramento presso il 2° Reggimento di Artiglieria Campale a Rivalta Bormida (AL) il ventenne sottotenente Lepore si era offerto volontario e poi mobilitato per il Fronte Russo, che aveva raggiunto in un comodo vagone letto in compagnia di un attendente e del suo fedele pastore tedesco.
I racconti di Tonino erano sempre molto generosi e a tratti allegri per tutto quanto riguardava la prima parte della sua partecipazione a quella che poi si rivelò la disastrosa campagna di Russia. «Appena raggiunto il Csir (poi divenuto Armir), venni assegnato ad un reparto misto di artiglieria italo-tedesco. I cannoni in dotazione erano dei Krupp, e noi seguivamo la prima linea a distanza, senza sparare un solo colpo fino alla controffensiva russa sul medio Don». Fino ad allora Tonino non aveva avuto occasione di scatenare la bocca da fuoco assegnatagli, e anzi aveva sempre dormito indossando un pigiama di seta fuori ordinanza in una comoda tenda per ufficiali. Una sola volta, prima della controffensiva, aveva visto morire un commilitone quando, all’improvviso, una salva di razzi «Katjusha» venuta dal nulla falciò un soldato italiano a soli 5 metri da lui. «Era così giovane che in tutto il campo lo chiamavamo il morticino», diceva amaramente Tonino.
I racconti di Francesco Antonio (suo nome completo), che era nato a Rossano Calabro (CS) ma aveva vissuto gran parte dei suoi 97 anni a Bari, prima o poi portavano inesorabilmente a quella maledetta ansa gelata del fiume Don che fino ad allora li aveva tenuti a debita distanza dalla furia dell’Armata Rossa. «Dalla mia postazione vedevamo decine di carri armati sovietici che avevano sfondato il fronte e iniziavano la controffensiva passando sul fiume gelato», ricordava Tonino di quel giorno. «Per la prima volta sentimmo il clangore inquietante di quei cingoli sul manto ghiacciato del fiume che amplificava i suoni». Di colpo sembrava che la guerra fosse finita proprio in quel momento e che non vi fosse null’altro da dire. Perché, a partire dallo sfondamento sovietico di inizio inverno, Tonino non aveva più risposte alle domande dei figli e degli amici tranne che lacrime e silenzi.
«Non voleva raccontare mai nulla della ritirata e della marcia disperata nella neve e nel ghiaccio», racconta l’ultima dei quattro figli, Mariateresa. «Diceva solo che i contadini russi non mostravano animosità nei confronti degli ex invasori italiani, cui non di rado offrivano cibo e riparo. Altrimenti non ce l’avrebbe mai fatta». Tonino non riuscì mai a raccontare tutto perché di fatto segnato da quell’esperienza. «Non sopportava il rombo di aerei che volavano bassi oppure i fuochi di artificio di una festa patronale» - continua Mariateresa nella sua casa di Bari - perché gli ricordavano la controffensiva sovietica e di fatto lo hanno spaventato fino alla fine della sua esistenza».
Durante la ritirata Tonino subì il congelamento dei mignoli di entrambe le mani e di alcune falangi. Le uniche dita delle mani rimastegli funzionali erano i pollici. Raggiunto finalmente un ospedale da campo probabilmente in Ucraina, gli vennero amputate le dita e le falangi congelate dei piedi e delle mani. E infine, dopo aver raggiunto il fronte in vagone letto, nel 1943 il tenente tornò in Italia a piedi e con mezzi di fortuna e dopo una serie infinita di tappe mentre altri 80 mila militari italiani non ce l’avrebbero fatta. Unica persona a dare speranza con le sue lunghe lettere in quell’inferno fu Rosa Carella, madrina di guerra barese di Tonino, la quale non smise mai di scrivere al tenente di artiglieria e che sarebbe diventata la sua sposa alla conclusione di quell’orrore e madre dei loro quattro figli. Una presenza costante e rassicurante per il resto della vita. Francesco Antonio aveva conservato di fatto un carattere aperto e socievole, e infatti negli ultimi tempi pensava sempre più spesso all’organizzazione del suo centesimo compleanno. A partire dalla sua scomparsa, la campagna di Russia sarà sempre di più una cosa da manuali di storia.