Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
L’Africa vera raccontata sulle Terrazze del Corriere
Ospiti il viceministro degli Esteri, Mario Giro, e i giornalisti Trovato e De Georgio
Anche ieri si sono radunati nel «Jardin 28 de Majo», a Maputo, la capitale del Mozambico, come ogni mercoledì da 28 anni a questa parte, per sfilare verso il ministero del lavoro. Non sono tanti, saranno ormai una quarantina, ma con fischietti e tamburi fanno molto rumore e soprattutto la loro presenza lascia aperta una brutta ferita. Parliamo degli ultimi testimoni dei madgermanes, come venivano chiamati con un neologismo da «made in Germany», quei 20 mila giovani mozambicani inviati nel 1975 nella Ddr, la Germania dell’Est, per imparare un mestiere da praticare nella nuova patria liberata dalla colonizzazione portoghese e rimasti vittime, invece, di una truffa disgustosa.
Le cose andarono così, come racconta Marco Simoncelli sulla rivista Africa. Il nuovo regime filocomunista seguito alla liberazione, avendo accumulato con la Ddr un grosso debito per la costruzione di una serie di fabbriche, decise di estinguerlo sottoscrivendo un contratto con la Germania orientale secondo il quale le ragazze e i ragazzi che vi si recavano a lavorare sarebbero stati pagati solo il 40% in loco, il restante 60% della loro paga sarebbe stato inviato al governo in Mozambico, somma che avrebbero ricevuto al loro rientro. Avete già capito come è andata a finire. Con la riunificazione della Germania il contratto sparì e la maggior parte dei giovani lavoratori tornò a casa, inquieti, ma almeno con la certezza di poter usare il gruzzolo che il governo aveva custodito per loro. Quel denaro, inviato regolarmente da Berlino, invece era sparito, usato chissà per cosa e chissà da chi. Senza contare che nel frattempo il paese era precipitato nella guerra civile (finita poi nel 1992). Da allora i madgermanes non hanno smesso di chiedere giustizia ai governi che si succedevano con l’unico risultato di finire ogni tanto sui giornali. O su libri a fumetti, come quello di Birgit Weyhe, in esposizione al Goethe Institut di Napoli fino al 31 maggio.
È una delle storie africane che abbiamo incontrato nella preparazione della nostra rassegna di quest’anno tutta dedicata al «continente Vero», come lo chiamano i nostri compagni di viaggio, i colleghi della rivista Africa. Potrebbe essere definita una storia «minore», e sicuramente lo è, dopotutto oggi riguarda nemmeno una cinquantina di persone; ma la proponiamo proprio per questo, per cancellare ogni aura epica nel parlare di un luogo dove vivono oltre un miliardo di sconosciuti che hanno sicuramente problemi più grandi di quelli che abbiamo nella nostra parte di mondo, ma che, altrettanto certamente, non hanno solo il volto di chi sbarca a Lampedusa.
Magari hanno quello di Kitty Phetla, ballerina straordinaria e coreografa del Joburg Ballet, la compagnia sudafricana di Johannesburg, cresciuta nelle baracche di Soweto e oggi una star. O dei tecnici ortopedici dell’ospedale di Makeni, in Sierra Leone, che realizzano braccia, gambe e ogni genere di protesi per le migliaia di invalidi di guerra. O anche dei giovani gambiani che si vendono ogni anno a turiste occidentali in cerca di evasioni o avventure erotiche. Insomma da stasera, e per otto settimane, noi, Corriere del Mezzogiorno e Fondazione Corriere della Sera, sulle terrazze di palazzo Diana, in piazza Massari, vogliamo parlare di un’Africa «normale», quella di tutti i giorni, offrendo attraverso le conoscenze dei nostri ospiti le informazioni più utili a cancellare pregiudizi e a spianare muri. È il nostro obiettivo di sempre, da quando, quattro anni fa, abbiamo iniziato a girare il mondo non muovendoci da Bari. Ci aggiungiamo stavolta un motto che ci è piaciuto molto: «Staff Benda Bilili», «Guarda oltre le apparenze», in lingua lingala, una di quelle che si parla in Congo. Non a caso è il nome di un celebre gruppo di musicisti paraplegici nato tra le baracche di Kinshasa, la capitale del Paese, negli anni Duemila. Lo abbiamo adottato per oggi e per il futuro. A stasera, ore 19.