Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Lecce, perdersi nelle vie del barocco L’odissea di un bimbo di dieci anni
Esce per Manni «Torre Saracena», un viaggio di Antonio Prete nel Salento di ieri e di oggi
Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo un estratto dal libro di Antonio Prete Torre Saracena. Viaggio sentimentale nel Salento (Manni, San Cesario di Lecce 2018, pp. 160, euro 14)
La luce e il tempo lavorano la pietra dei balconi, delle corti, dei cornicioni, dei bassorilievi fiorati che circondano le finestre dei palazzi: le forme architettoniche non solo dialogano con la luce e respirano il tempo, ma sono configurate e animate dalle tonalità della luce che svariano lungo il giorno e sono modellate dal passaggio degli anni, dallo scorrere del tempo. Che s’insinua nel ricamo e a sua volta, come hanno fatto un tempo gli scalpellini, disegna, smorza, inombra, sbalza, lima, arrotonda, attenua. Il barocco a Lecce è questo nodo che unisce la pietra, la luce, il tempo. Trovo una definizione appropriata nel libro che sul Salento scrisse nel 1958 Fernando Manno, Secoli
fra gli ulivi, un libro molto bello e trascurato, al quale Antonio Errico ha saputo dare una nuova vita, curandone un’edizione presso Manni: «Il nostro barocco è la bibbia del nostro sentire, la indigena visione del mondo. È parte del paesaggio, come l’Orlando
Furioso può esserlo del paesaggio fisico e umano del Rinascimento».
Nel centro storico il movimento delle vie, l’apertura delle piazzette, l’affaccio delle corti, la disposizione dei loggiati o delle balconate segue l’idea di una città-teatro: spazio urbano per voci, per apparizioni, per incontri. O per smarrimenti. La disgiunzione è suggerita da un episodio dei miei dieci anni rimasto vivo nella memoria. Esame di ammissione alla scuola media, non ancora scuola dell’obbligo: al mio paese non c’era ancora la scuola media, e l’esame lo si doveva sostenere a Lecce. Mattino di giugno. Ci accompagnarono, quei pochi che sostenevamo questo passaggio non fermandoci alla quinta elementare, con la corriera.
Poi, a piedi, fino all’edificio scolastico: il patto era che intorno all’una dovevamo convergere nel luogo da cui sarebbe ripartito l’autobus diretto al paese. Entrammo nell’aula per il tema. Scrissi di getto: non sapevo ancora che rileggere e correggere apparteneva alla composizione, al suo tempo, e poteva essere molto utile, dunque consegnai dopo pochi minuti i fogli e uscii, solo, allontanandomi dall’edificio verso il luogo della corriera, dove avrei atteso per qualche ora l’arrivo degli altri. Mi ritrovai presto in vicoli da cui tornavo indietro, in piazzette che abbandonate ricomparivano dopo poco, entravo in spazi che speravo fossero di passaggio e invece si rivelavano essere androni chiusi o grandi corti con palme e altre piante nell’interno ombroso. Il biancore delle pareti di calce per le strade, il giallogrigio dei balconi, le figure delle cariatidi e le forme di animali che in rilievo circondavano i portoni, l’improvviso levarsi d’una facciata di chiesa con statue nelle grandi nicchie, tutto mi meravigliava, e nello stupore dello sguardo c’era qualcosa di orgoglioso e di fiero, perché per la prima volta, di là dalle note strade del mio paese, mi aggiravo da solo in una città grande, da solo potevo dedicare al passeggio nelle strade il tempo reso libero dalla rapida consegna del tema: poi, a un certo punto, in tutta calma, sarei giunto alla piazza della corriera, una piazza il cui nome però non conoscevo. Ma col passare del tempo l’attenzione si sfaldava, lo stupore si apriva al dubbio, l’incertezza scivolava verso il disagio, e tutta quella luce mi abbagliava. Dopo un paio d’ore, o forse più, di andirivieni e di tentativi, mi arresi, ammisi che mi ero davvero smarrito. Ero un bambino che si era perso nelle strade di una città: e non ero il bambino di un racconto, ero io in carne ed ossa. L’apparizione improvvisa, e provvidenziale, di un mio zio materno che era in quella parte della città per il suo lavoro di fabbro mi salvò dall’angoscia che già cercava la via del pianto.