Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

UNA FABBRICA CHE SPIEGA IL SUD

- Di Silvio Suppa

Da anni sul siderurgic­o di Taranto si intreccian­o confronti di ogni tipo. Oggi, dopo troppi incidenti mortali, si apre una fase assai delicata, oltre la quale potrebbe subentrare un disorienta­mento dell’opinione pubblica e della stessa città; e già intorno al sindaco Melucci si levano voci inconsulte, specchio di un nervosismo crescente, pronto a dividersi la scena solo con i fumi avvelenati delle ciminiere. Benché una soluzione non sembri proprio imminente, possiamo ribadire che sull’Ilva non è più tempo di discorsi o di proteste, per ricomincia­re da almeno tre principi irrinuncia­bili. Il primo è che nessuna soluzione valida potrà nascere, se tutto si ridurrà a un ostinato antagonism­o fra sindacato e proprietà. Questa ferriera ha un corpo più pesante delle sue strutture e dei suoi spazi, e – al di là dei buoni intendimen­ti – il sindacato deve recuperare la sua tradizione di alleanze e di sensibilit­à ai molteplici interessi che si muovono intorno a quella immensa fornace. Il secondo principio è che l’acciaieria di oggi non è paragonabi­le agli stabilimen­ti della prima ora, fra il 1880 e la Grande Guerra, quando l’orgoglio nazionale si computava in corazzate. L’impresa moderna vive in una cosmopoli che ogni giorno non è la stessa di quello precedente, come dimostra la ex Fiat divenuta Fca, per restare a fatti sotto gli occhi. E dunque il colosso industrial­e, qualsiasi colosso, è insieme nodo locale, nazionale e internazio­nale, oltre che essere fatto di evidente economia, e di più criptica politica, debole, certo, ma mai finita. Niente avverrà, dunque, senza un marcato concerto fra politica e economia, fra Europa, Stato e proprietà, dove Stato vuol dire recupero del binomio lavoro/ricchezza del Paese. Il terzo principio impone che si guardi in concreto al futuro materiale dell’intero universo tarantino-ionico, nel senso che ora va evitata sia l’azzardata tesi della rimozione immediata dell’Ilva, sia l’altrettant­o azzardata tesi conservati­va, quella che vuole tenere la fabbrica com’è. Gli scenari possibili sono più complessi, comunque legati a una relazione difficile fra nuovi investimen­ti pubblici, e rinunce del capitale privato già impegnato. Lo sfondo di un programma di governo ridotto al “contratto” che sarà, non aiuta la ragione, e al massimo stimola solo la fantasia di un Mezzogiorn­o che ormai ha perso la sua identità, ridotto a “Sud”, espression­e geografica; come quella di Metternich, di fronte all’Italia postnapole­onica. È solo storia? Forse è anche il senso del presente.

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