Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
UNA FABBRICA CHE SPIEGA IL SUD
Da anni sul siderurgico di Taranto si intrecciano confronti di ogni tipo. Oggi, dopo troppi incidenti mortali, si apre una fase assai delicata, oltre la quale potrebbe subentrare un disorientamento dell’opinione pubblica e della stessa città; e già intorno al sindaco Melucci si levano voci inconsulte, specchio di un nervosismo crescente, pronto a dividersi la scena solo con i fumi avvelenati delle ciminiere. Benché una soluzione non sembri proprio imminente, possiamo ribadire che sull’Ilva non è più tempo di discorsi o di proteste, per ricominciare da almeno tre principi irrinunciabili. Il primo è che nessuna soluzione valida potrà nascere, se tutto si ridurrà a un ostinato antagonismo fra sindacato e proprietà. Questa ferriera ha un corpo più pesante delle sue strutture e dei suoi spazi, e – al di là dei buoni intendimenti – il sindacato deve recuperare la sua tradizione di alleanze e di sensibilità ai molteplici interessi che si muovono intorno a quella immensa fornace. Il secondo principio è che l’acciaieria di oggi non è paragonabile agli stabilimenti della prima ora, fra il 1880 e la Grande Guerra, quando l’orgoglio nazionale si computava in corazzate. L’impresa moderna vive in una cosmopoli che ogni giorno non è la stessa di quello precedente, come dimostra la ex Fiat divenuta Fca, per restare a fatti sotto gli occhi. E dunque il colosso industriale, qualsiasi colosso, è insieme nodo locale, nazionale e internazionale, oltre che essere fatto di evidente economia, e di più criptica politica, debole, certo, ma mai finita. Niente avverrà, dunque, senza un marcato concerto fra politica e economia, fra Europa, Stato e proprietà, dove Stato vuol dire recupero del binomio lavoro/ricchezza del Paese. Il terzo principio impone che si guardi in concreto al futuro materiale dell’intero universo tarantino-ionico, nel senso che ora va evitata sia l’azzardata tesi della rimozione immediata dell’Ilva, sia l’altrettanto azzardata tesi conservativa, quella che vuole tenere la fabbrica com’è. Gli scenari possibili sono più complessi, comunque legati a una relazione difficile fra nuovi investimenti pubblici, e rinunce del capitale privato già impegnato. Lo sfondo di un programma di governo ridotto al “contratto” che sarà, non aiuta la ragione, e al massimo stimola solo la fantasia di un Mezzogiorno che ormai ha perso la sua identità, ridotto a “Sud”, espressione geografica; come quella di Metternich, di fronte all’Italia postnapoleonica. È solo storia? Forse è anche il senso del presente.