Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Sulle Terrazze del Corriere ecco i narratori d’Africa
Questa sera a Palazzo Diana si parla ancora di Africa, di Sahara e di migranti, di jihadisti e guerre con le testimonianze della scrittrice Elena Dacome e del reporter Raffaele Masto: viaggiatori e narratori
Qualche anno fa scrissi l’introduzione ad un mio libro che era una sorta di riflessione e impegno su come avrei seguito le notizie di politica internazionale, le crisi e i conflitti del continente africano. Eccola di seguito:
«Prima o poi con la propria scrivania si finisce per avere un rapporto maniacale. Sul tavolo di un giornalista arriva di tutto: dispacci di agenzia, notizie dal web, e-mail, fax, lettere che parlano di guerre lontane, di attentati, di crisi politiche. Lì, sulla scrivania, il giornalista si fa un’idea di quello che accade, mette insieme frammenti di informazione per farne un quadro completo, per dare senso a un fatto, per spiegare un avvenimento. È sulle scrivanie che il mondo prende forma, che tutto diventa chiaro e i conflitti trovano una spiegazione.
«Ma poi, la prima volta che ci si alza dalla sedia per andare a vedere con i propri occhi le situazioni schematizzate e sintetizzate sulle scrivanie, ci si accorge che il mondo, quello vero, è lontano anni luce. E allora si va in crisi.
«Mi capita sempre di ricredermi, ogni volta che arrivo sul luogo di un avvenimento, su gran parte delle idee che mi ero fatto a tavolino. Sul posto la gravità della situazione appare smussata, si finisce per convincersi che i cattivi hanno fior di giustificazioni, spesso condivisibili, e che i buoni non lo sono poi del tutto. Insomma, sul posto le cose cambiano sensibilmente, rivelando la loro complessità.
«In questi anni mi sono convinto che non esistono fatti semplici, e che gli avvenimenti non rispondono meccanicamente alla legge di causa-effetto, perché sono la risultante di svariate forze. D’altra parte, però, se si volesse dar conto fino in fondo di tante sfaccettature, si finirebbe per non scrivere e non raccontare più niente. Dunque il problema resta senza soluzione e credo stia proprio qui l’origine di quel rapporto insano con le scrivanie.
«Qualche anno fa, mi consegnarono in redazione un dispaccio di agenzia, poche righe che riferivano di scontri religiosi in Nigeria, con diversi morti. Mi organizzai per scrivere la notizia e riordinai le idee: Nigeria, il paese più popoloso d’Africa, una miriaese de di etnie e di lingue diverse. Una potenza regionale schiacciata per decenni da durissime e spietate dittature militari. Un paese ricchissimo di risorse umane e materiali, con giacimenti di greggio che ne fanno uno dei principali produttori mondiali di petrolio, eppure una popolazione poverissima. Lo scontro religioso tra il Nord musulmano e il Sud cristiano-animista. Le brulicanti baraccopoli che cingono tutte le grandi metropoli, vere e proprie città nelle città. Insomma, un vulcano in eruzione, lì sulla mia scrivania, da sintetizzare nelle poche righe richieste dal caporedattore.
«Ripresi fiato e, prima di scrivere, riordinai il tavolo: tastiera in linea con il video del computer, le carte da consultare sulla sinistra, in successione cronologica e di importanza. Di fronte alla complessità del mondo avevo bisogno di un po’ d’ordine, almeno intorno a me.
«È questa ricerca di un ordine che spinge, spesso, il sistema mondiale dell’informa- zione a parlare per luoghi comuni. Ma le cose non sono mai semplici, è il nostro bisogno di ordine che ci spinge a trasformarle per renderle comprensibili. Così un’alleanza troppo stretta fra il giornalista e il suo tavolo finisce per essere deleteria. Quando il matrimonio tra i due è ben riuscito e fedele, avvengono i più clamorosi scivoloni verso la banalizzazione. Quando il giornalista si muove con troppa sicurezza sulla propria scrivania, i luoghi comuni diventano schemi ideologici.
«Succede anche a me, quando assegno troppo potere alla mia scrivania, quando mi fido ciecamente dei formidabili mezzi che la tecnologia odierna ci mette a disposizione. Per questo motivo mi è diventato indispensabile ridimensionare l’importanza del mio tavolo, alzarmi dalla sedia e andare sul posto, a... vedere».
Lo feci. Il primo lavoro fu in Somalia. Erano i primi anni novanta e la guerra civile aveva costretto il dittatore Siad Barre a fuggire in Kenya. Il pa- piombò in una spietata guerra civile che durò più di vent’anni e che non si è ancora del tutto conclusa. Inizialmente si trattava di uno scontro per il potere tra il generale Farah Aidid e il politico Ali Mhadi. Incontrai per la prima volta il generale, in uno scenario da incubo, nell’agosto 1992, per la Somalia era il momento peggiore. Gli chiesi se una lotta per il potere valesse tutta la distruzione e la sofferenza che ci circondavano. Non mi rispose, limitandosi ad allargare le braccia mentre, a pochi passi da noi, i suoi miliziani armati cercavano di tenere lontana una folla di affamati che implorava cibo ai guerriglieri.
Come sempre, i periodi di grande sofferenza umana sono anche grandi eventi giornalistici, e la Somalia di quei mesi lo fu a pieno titolo. Ero lì per quello, come molti altri giornalisti, ma ci andai in modo diverso, con le forze del generale Aidid, embedded si direbbe oggi, e ciò mi permise di vedere e raccontare il dramma di quel popolo da un’angolatura originale. E siccome i fatti della storia e le vicende personali degli individui si intersecano e si influenzano a vicenda, raccontai un uomo, Aidid, che per alcuni mesi impersonò il ruolo dell’eroe cattivo che andava vinto e abbattuto a ogni costo. Raccontai la storia di un’intervista che mi concesse nel momento in cui era maggiormente ricercato dai marines e dai caschi blu delle Nazioni Unite della missione Restore Hope. E anche la storia di che cosa accade dietro le quinte di un grande evento giornalistico che catalizza per mesi l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale.
Ricordo ancora quanto mi costò dare seguito a ciò che scrissi in quell’introduzione. Atterrai in Somalia con un piccolo Cessna, sulla pista in terra battuta del piccolo aeroporto di Baidoa. Fummo immediatamente circondati da
Sul campo
Ogni volta che arrivo sul posto devo ricredermi sulle idee che mi ero fatto a tavolino
L’esperienza
Il primo lavoro fu in Somalia. Anni novanta, c’era la guerra civile e il dittatore Siad Barre era fuggito
una folla di affamati ossuti, con occhi enormi incassati in un capo che era già un teschio, si muovevano lentamente, erano senza forze ma si capiva che chiedevano cibo, qualunque cosa fosse commestibile. Erano tenuti a distanza, senza tanti complimenti, dai guerriglieri di Aidid che erano gli unici che mangiavano. Mi sembrò un film dell’orrore e ricordo che provai un impulso fortissimo a correre verso l’aereo che stava facendo manovra per decollare, salire a bordo, fuggire da quel luogo infernale e tornare alla mia scrivania. Vidi l’aereo rollare sulla pista, prendere velocità e partire senza di me.