Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Il cold case dell’estetista Un video riapre il processo
Nuova prova prodotta dai legali dell’ex compagno In primo grado condanna a 25 anni di reclusione
Un video che potrebbe spostare l’omicidio di almeno un’ora. Una nuova prova riapre il processo per la morte della 29enne italo-brasiliana Bruna Bovino, uccisa il 12 dicembre 2013 in un centro estetico a Mola di Bari. Alla sbarra c’è il 36enne, Antonio Colamonico, ex compagno della donna. Il video è stato depositato ieri nell’udienza in Corte d’Appello.
Un video che potrebbe spostare l’omicidio di almeno un’ora. Una nuova prova riapre il processo per la morte della 29enne italo-brasiliana Bruna Bovino, uccisa il 12 dicembre 2013 in un centro estetico a Mola di Bari. Alla sbarra c’è il 36enne, Antonio Colamonico, ex compagno della donna. Nell’udienza di ieri dinanzi ai giudici della Corte di Assise d’Appello di Bari, il video è stato depositato dagli avvocati Roberto Chiusolo e Nicola Quaranta, difensori di Colamonico.
L’imputato, in carcere dall’aprile del 2014, è già stato condannato in primo grado alla pena di 25 anni di reclusione: è accusato di omicidio volontario e incendio doloso. Le fiamme, secondo l’accusa, sarebbero state appiccate al fine di cancellare le prove del delitto. Nelle nuove immagini agli atti del processo, è stata immortalata una coppia che prende un caffè alle 18.15 in un bar che si trova a pochi metri dal centro estetico all’interno del quale è stato commesso l’omicidio. L’uomo in quel video è un commerciante che ha un laboratorio di tatuaggi nella stessa zona e ha dichiarato di aver visto e salutato l’estetista dopo aver preso quel caffè mentre andava via e passava davanti al centro estetico. Dettagli che rimetterebbero in discussione l’intera ipotesi accusatoria. Perché, stando a quanto accertato dalle indagini e dagli esami medico legali, la ventinovenne sarebbe morta intorno alle 17. Quindi più di un’ora prima dal momento in cui il commerciante ha incrociato la giovane dopo aver preso il caffè. Se fosse davvero così ad uccidere Bruna Bovino potrebbe non essere stato Antonio Colamonico perché a quell’ora, come è stato sostenuto durante le fasi processuali, era già arrivato a Polignano a Mare. Un dettaglio investigativo dimostrato dalle celle telefoniche.
Con questo nuovo quadro processuale che potrebbe rimettere tutto in discussione, il giudici della corte di Assise di Appello, hanno accolto l’istanza della difesa dell’imputato e hanno disposto una perizia sul video depositato dalla difesa «al fine di verifi- care il momento in cui i testimoni avevano visto e salutato la vittima e perciò al fine di individuare l’esatto momento di commissione del delitto». I giudici hanno inoltre disposto che entrambi i testi (la coppia immortalata dalle telecamere alle 18.15) siano nuovamente sentiti in aula. Il processo è stato rinviato al 6 giugno per il conferimento dell’incarico al perito.
Il corpo della giovane estetista fu trovato semicarbonizzato sul pavimento del centro estetico. Raccapricciante la scena del delitto: c’erano brandelli di indumenti e sangue. La donna era stata uccisa con venti colpi di forbice e poi strangolata. Infine l’assassino appiccò il fuoco al fine di cancellare le prove.
Durante il processo di primo grado, Colamonico (era sposato e aveva una relazione con la vittima) aveva sempre sostenuto la sua innocenza dichiarando di amare la vittima e che non avrebbe mai potuto ucciderla. Il giorno in cui fu ammazzata, l’imputato ammise di averla incontrata. Lui era andato a trovarla nel centro estetico ed era rimasto con lei fino al primo pomeriggio. Disse poi di aver appreso quella stessa sera di quanto accaduto da un’amica in comune e di essersi recato sul posto. Negò di aver litigato con la donna, affermando invece che la stava aiutando a chiudere l’attività perché lei voleva trasferirsi altrove.
Il 3 luglio dello scorso anno i giudici della corte di Assise lo hanno condannato alla pena di 25 anni condannandolo anche al risarcimento danni nei confronti delle parti civili. Dopo la lettura del dispositivo, i difensori dissero che si trattava di un «processo indiziario».