Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Raffaelli (Amref): «L’errore di trascurare l’Africa»
Oggi il quinto incontro del ciclo dedicato ai rapporti tra l’Italia e l’Africa Ne parliamo con Mario Raffaelli, già sottosegretario e ora presidente dell’Amref
Forse non tutti sanno che Salvini ha “rubato” alla Amref (African Medical and Research Foundation, la più grande organizzazione medica non governativa in Africa), la parola d’ordine più importante degli ultimi anni, “Aiutiamoli a casa loro”. Era il 2014, e all’Amref sembrava la più avanzata delle proposte. Abbiamo chiesto al presidente della sezione italiana dell’Ong, Mario Raffaelli, cosa voleva dire nell’epoca pre-Salvini quella parola d’ordine e che cosa è accaduto in questi quattro anni perché oggi voglia dire cose completamente diverse, se non opposte.
«“Aiutiamoli a casa loro” spiega Raffaelli - per noi significa privilegiare interventi di cooperazione che favoriscano l’auto-sviluppo. Ciò comporta il coinvolgimento delle popolazioni e istituzioni locali fin dall’inizio, garanzia di efficacia e sostenibilità degli interventi. Allo stesso tempo questo approccio contribuisce a far sì che l’emigrazione dall’Africa, nel lungo periodo, possa diventare sempre più un’eventualità e non una costrizione. Evidentemente, nell’ottica di Salvini, questo è solo uno slogan efficace per contrabbandare una politica che, speculando sulla paura alimentata dalla lunga crisi economica, crea in gran parte della popolazione l’illusione che il fenomeno possa essere governato facendo la faccia feroce. Una politica moralmente discutibile e, alla lunga, insostenibile».
Come se ne uscirà secondo lei dopo il caso Malta?
«E’ un altro esempio di spot pubblicitario efficace. Giocato, per di più, sulla pelle di persone già in estrema difficoltà. Mentre si infligge a 629 migranti una settimana di sofferenze ulteriori ci si appresta ad accoglierne un migliaio perché trasportati su “nave italiana”. Un primo passo per affrontare seriamente questo problema avverrà nel meeting europeo di fine mese, dove dovrebbe essere concordata la modifica della famosa Convenzione di Dublino in favore di una distribuzione proporzionale dei rifugiati fra i paesi europei. Quella divisione più equa che viene rifiutata proprio dal “gruppo di Visegrad” con il quale Salvini intrattiene rapporti privilegiati».
Avrà visto anche dagli ultimi sondaggi che la questione migranti resta la principale preoccupazione degli italiani; perché, a suo parere?
«E’ un problema di percezione. I dati sarebbero eloquenti. Nel 2017, dal 1 gennaio al 12 giugno, sono arrivati 64.033 migranti. Nel 2018, stesso periodo, ne sono arrivati 14.441 con una diminuzione del 77,45%. Tuttavia, quando qualcuno riesce a parlare alla pancia della gente non si può rispondere parlando solo al cuore. Bisogna riuscire a parlare anche al cervello costruendo una “narrazione” che sia comprensibile anche a chi è in situazione di disagio o ha paura».
Amref ha compiuto 60 anni durante i quali sono accaduti fatti straordinari nel mondo, non ultimo la fine della guerra fredda: eppure la percezione è che in questo incredibile periodo l’Africa non abbia partecipato al cambiamento, e che anzi il continente si sia allontanato ancora di più da noi…
«Più che parlare di “Africa” dovremmo parlare di “Afri- che”, con dinamiche di sviluppo assai differenziate. Spesso, le aree più arretrate coincidono con i conflitti interni o con le dinamiche inerenti alla cosiddetta “guerra globale al terrorismo”. Sul piano generale, c’è un estremo bisogno di migliorare la dotazione infrastrutturale e l’efficienza delle istituzioni pubbliche e private. Questioni sulle quali la cooperazione internazionale potrebbe fare molto di più».
Quali sono i fattori che bisogna tenere presente quando si parla di migrazione?
«Bisogna spiegare che in tema di emigrazioni non siamo di fronte a “emergenze” ma ad un problema strutturale. L’Europa (il continente più ricco al mondo) è in decrescita demografica, con una popolazione in media sempre più anziana. L’Africa (il continente più povero) ha tassi demografici in forte crescita, con una popolazione molto giovane. Quando io andavo in Africa nei primi anni ’80 c’erano 400 milioni di persone, oggi sono più di un miliardo e nel 2030, a tassi invariati, saranno più di due miliardi. Non solo per umanitarismo, quindi, ma per interesse reciproco l’Europa dovrebbe sentirsi coinvolta nel futuro dell’Africa. E l’Italia prima di tutti perché più esposta ma, allo stesso tempo, più bisognosa di una immigrazione regolata per sostenere l’economia».
Lei è stato un importante uomo politico della cosiddetta “Prima Repubblica”, socialista, molte volte sottosegretario nei governi Craxi e De Mita, partecipando a processi di pace (Mozambico, Nagorno-Karabakh, Nicaragua, Corno d’Africa) che hanno cambiato il volto di alcuni paesi: quando è nata la sua vocazione? E come la vive oggi, in tempi così diversi?
«La vocazione è nata negli anni da sottosegretario e si è poi sviluppata operando nei diversi scenari che lei ha citato. Considero un privilegio aver avuto la possibilità di dedicarmi da diverse angolature a problematiche che, pur essendo di tipo internazionale, incidevano sulla vita delle singole persone. A volte con risultati positivi, altre con esiti frustranti.
La questione migranti che ossessiona gli italiani è un fatto di percezione: i numeri sono eloquenti, gli arrivi diminuiscono
L’Europa dovrebbe sentirsi coinvolta dal futuro del continente africano per interesse, anche economico