Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Che ci piace non è una innata, ma culturale
Ecco perché il buono è un’idea che arriva dal contesto
eCiò e e e equestione un cibo amaro sia anche velenoso. In un momento della vita in cui l’oralità dell’esplorazione è spiccata, il corpo attua sistemi di difesa programmati per inibire quel tipo di esplorazione che potrebbe essere nefasta. Molto difficile che una cosa dolce sia velenosa, perchè il dolce, e quindi l’elemento zuccherino, calorico, immediatamente spendibile, è ciò che ci ha tenuto in vita quando eravamo degli animali unicamente frugivori. A quei tempi, la nostra giornata passava interamente alla ricerca di zuccheri che ci garantissero di arrivare al mattino successivo.
Il gusto è un senso attivo, ovvero necessita un’azione volontaria di introduzione di un oggetto nel cavo orale, per apprezzarne il sapore, al contrario dell’olfatto che essendo passivo, permette una percezione abbastanza precisa in quasi tutte le condizioni, che lo si voglia o meno. È una caratteristica che, per esempio, se stiamo dormendo e scoppia un incendio, è in grado di fare la differenza, perchè il nostro corpo è progettato per svegliarci. Il gusto è un senso che unisce percezione ed aspetto culturale, collettivo, identitario. David Le Breton, antropologo dei sensi, lo definisce ‘prodotto della storia’, per via della sua forte valenza simbolica. Il cibo è così socialmente connotato, che a volte scegliamo cosa mangiare perchè quel piatto evoca un momento felice, una persona cara. La riproducibilità rituale legata a ciò che si mangia è stimolata continuamente all’interno della società: alcuni momenti dell’anno richiedono preparazioni specifiche come il ragù della domenica, i dolci di pasta di mandorle a Natale, la colomba a Pasqua, il pesce il venerdì. Solo citando questi esempi è possibile vedere come diverse combinazioni culturali/geografiche/storiche, si uniscono in cucina.
I BAMBINI PICCOLI SONO NATURALMENTE PIÙ SENSIBILI ALL’AMARO