Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Tredici ore, 32 euro di paga Gli schiavi di uva e ciliegie
Caporalato A Mola e Bisceglie. Tre arresti della Finanza
Pagavano i braccianti 2,5 euro all’ora, facendoli lavorare fino a tredici ore consecutive sotto i teloni con temperature altissime, africane. Con le accuse di associazione per delinquere, caporalato, estorsione, truffa ai danni dell’Inps e autoriciclaggio, la finanza ha messo agli arresti domiciliari tre persone e notificato l’obbligo di dimora per altre quattro. Gli arrestati sono la donna accusata di fare da caporale, Maria Macchia, l’amministratore e l’addetto alla contabilità dell’azienda agricola Extrafrutta di Bisceglie.
La paga era 2 euro e 50 all’ora. Per un turno di lavoro che durava fino a 13 ore consecutive. Spesso anche di notte. Un milione è il valore dei beni sequestrati ad una azienda agricola di Bisceglie. Sono alcuni dei numeri dell’inchiesta «Macchia nera» della Guardia di finanza che ha annientato un gruppo criminale «dedito al reclutamento e allo sfruttamento di braccianti agricoli per la raccolta dell’uva da tavola e delle ciliegie» nel Barese e nella Bat.
L’indagine ha portato all’arresto di tre persone per associazione a delinquere, capolarato, estorsione, truffa ai danni dell’Inps e autoriciclaggio: ai domiciliari sono finiti Maria Macchia, accusata di essere la «caporale», l’amministratore e l’addetto alla contabilità dell’azienda agricola Extrafrutta di Bisceglie, Bernardino Pedone e Massimo Dell’Orco.
Altre 4 persone sono indagate: a loro è stato notificato l’obbligo di dimora. Sono familiari della donna che avevano il compito di raccogliere il denaro dai braccianti i quali ogni 15 giorni dovevano restituire due euro alla caporale. Dalla «quindicina», quest’ultima, avrebbe guadagnato circa 110 mila euro.
È stato inoltre disposto il controllo giudiziario dell’azienda (si tratta di una recentissima misura introdotta dalla legge 199/2016 che ha apportato modifiche all’articolo 603 bis del codice penale) e il sequestro preventivo «per sproporzione» di beni immobili, terreni, auto, conti correnti bancari e postali per l’importo complessivo di un milione e dei quali «gli indagati non sono stati in grado di giustificare la lecita provenienza».
L’indagine è partita due anni fa dopo le segnalazioni anonime di alcuni lavoratori e ha monitorato circa 2 mila braccianti sfruttati. Dagli accertamenti è emerso un trattamento discriminatorio nei confronti delle donne che mediamente venivano pagate meno degli uomini: è stato peraltro accertato un episodio di omesso soccorso ad una lavoratrice che si era sentita male tre volte nella stessa giornata. I braccianti lavoravano ore ed ore consecutivamente sotto i teloni ad altissime temperature. «Non è vita così, si stava sentendo male, poi è caduta a terra... prendi l’acqua... ma non ne avevamo più». È lo stralcio di una conversazione intercettata dalla procura tra due braccianti che commentano quanto accaduto alla donna che si era sentita male.
La documentazione contabile sequestrata ha permesso di accertare più di 24 mila giornate lavorative e oltre due milioni di profitto illecito. In alcuni casi, le buste paga erano inferiori rispetto al lavoro realmente prestato, in altri casi ancora erano gonfiate. La differenza veniva restituita all’imprenditore che così poteva pagare in nero l’altra metà dei lavoratori, perlopiù pensionati o persone con il doppio lavoro. «I promotori dell’organizzazione nei rispettivi ruoli di amministratore di una società, di addetto alla contabilità aziendale e di una caporale di Mola di Bari a sua volta a capo di una rete di caporali - scrivono gli inquirenti - facendo leva sullo stato di bisogno economico organizzavano il reclutamento dei lavoranti del sud est Barese (Mola, Noicattaro, Conversano e Rutigliano) per condurli a bordo dei pullman dell’azienda agricola sia presso il magazzino a Bisceglie sia presso i tendoni di uva da tavola».
I tendoni erano dislocati a Mola, Rutigliano, Andria, Barletta, Trani e poi a Trinitapoli. I lavoratori reclutati erano quasi tutti italiani e prevalentemente donne.
È emerso inoltre che la presunta caporale, Maria Macchia, che i lavoratori conoscevano come Marisa, istruiva i lavoratori su cosa rispondere in caso ci fossero stati i controlli della Guardia di finanza e forniva loro dei «biglietti promemoria»: non dovevano chiamarla caporale, dovevano dichiarare di lavorare sei ore al giorno (e non 14 come in realtà avveniva) e non riferire che le davano una percentuale del guadagno che gli investigatori ritengono «una tangente della manodopera».
«Quello che urta la sensibilità - ha spiegato il procuratore di Bari, Giuseppe Volpe - è il tono con cui la caporale si esprime nelle conversazioni, con un cinismo raccapricciante». In occasione della morte in un incidente stradale di un ex dipendente, per esempio, la donna dice “non pagava, questa è la fine che devono fare quelli non pagano”».
I numeri Monitorati per due anni circa duemila agricoltori Sequestrati beni per un milione