Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Mezzapesa e la storia di Elia Un film costruito per Rubini
Pippo Mezzapesa racconta il suo nuovo film, «Il bene mio», costruito su Rubini
Un paese fantasma, Provvidenza. Una comunità che tenta di ricominciare in una fredda new town a valle, prendendo le distanze - fisiche e morali - dalla tragedia di un sisma. Elia è l’ultimo abitante e si aggrappa con tutte le forze a Provvidenza, al ricordo della moglie scomparsa; diventa custode della memoria del borgo, rifiutandosi di lasciar spegnere quell’ultima luce rimasta accesa in paese. In breve, questa è l’idea alla base de Il bene mio, secondo film di finzione del bitontino Pippo Mezzapesa che sarà presentato alle prossime Giornate degli Autori, come evento speciale fuori concorso. Un ritorno alla Mostra di Venezia a 10 anni dalla Settimana della critica, frequentata con Pinuccio Lovero – Sogno di una morte di mezza estate. Elia è Sergio Rubini, primo di una schiera di professionisti pugliesi all’opera, sia dietro che davanti alla macchina da presa.
Mezzapesa, comunità e memoria sono le parole chiave della sua opera seconda?
«Elia lotta per riconciliare la comunità col proprio passato. Non vuole lasciar dissolvere il ricordo di ciò che è stata. Amo raccontare i gruppi attraverso gli occhi di un personaggio: Il bene mio è quello che Elia prova per la moglie perduta, per il paese, per quello che non c’è più e che vorrebbe ricostruire, non dimenticare».
Il luogo è fondamentale per il racconto, dove avete girato?
«Nel piccolo paese di Apice, nel beneventano, ricostruito anche a Gravina di Puglia. Importante è la cultura dei luoghi, aperta a quello che arriva da fuori, da oltre confine. Il film parla molto della difficoltà di superarli, i confini, soprattutto mentali, legati a traumi e fobie che non consentono di guardare oltre».
Oltre alla sua abituale cosceneggiatrice Antonella Gaeta, nella scrittura stavolta c’è una terza mano, Massimo De Angelis. Come avete lavorato in trio?
«Io e Antonella abbiamo iniziato insieme, collaboriamo da sempre. Ci vengono idee e le buttiamo in un calderone, poi negli anni ripeschiamo ciò che abbiamo seminato l’uno nella memoria dell’altra. Ho scoperto una storia sull’ultimo barbiere di un paese, scritta per un corto da Massimo e vi ho trovato molte assonanze. È stato interessante, sempre in tema di aperture, aprire il nostro binomio ad uno sguardo esterno».
Avresti fatto il film senza Rubini?
«Elia è stato scritto pensando a Sergio, al suo volto, alle sue movenze, alla sua capacità unica di mescolare dramma e malinconia, leggerezza e tragedia. Tra scrittura e set passa tanto tempo e ci sono mille ostacoli; era tutto in dubbio ad un certo punto. Per fortuna poi siamo riusciti a conciliare i tempi, ed Elia è tornato ad essere quello che era già nelle nostre teste e su carta. Vediamo tutto tramite il suo sguardo: la comunità la scopriamo, come un puzzle che si compone pian piano, attraverso gli incontri con i compaesani che tentano di convincerlo a scendere, dal sindaco (Francesco De Vito) all’amico Gesualdo (Dino Abbrescia), alla donna che vorrebbe iniziare una nuova vita con lui (Teresa Saponangelo)».
Com’è stato dirigere Rubini?
«Una scuola di cinema. Prepara talmente bene il personaggio che puoi permetterti di andare oltre, improvvisare. Una esperienza umana e professionale unica».
Secondo film e torna a Venezia, con quali aspettative?
«Il bene mio è importante perché arriva sette anni dopo Il paese delle spose infelici. Perché mi rappresenta fortemente e perché è tratto da una idea originale. È girato con maggior consapevolezza e il tono malinconico e paradossale è quello che mi piace dare al racconto. Inoltre, c’è una produzione (Altre Storie di Cesare Fragnelli con Rai Cinema) che mi ha seguito in maniera creativa e rispettosa. Venezia è un traguardo prestigioso per un piccolo film, una soddisfazione per un autore. Per Pinuccio Lovero portò bene, spero di ricevere lo stesso affetto».