Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
La scuola delle competenze che non fa sbocciare le teste
L’anno scolastico è alle prime battute, con gli esami di accertamento dei debiti formativi registrati a giugno, e io sono già stanco. Stanco dei colleghi, non degli alunni. Stanco delle loro miserie, delle loro ipocrisie e, soprattutto, stanco delle loro cattiverie. Questi (inutili) esami, infatti, sono un esercizio sadico di cattiveria allo stato puro. Di odio rovesciato addosso agli alunni più deboli, alle loro famiglie, e alle loro storie. «Quattro ho dato a giugno, e quattro ha preso oggi».
«Ha consegnato foglio bianco, e mi ha dichiarato di non sapere nulla del programma di matematica», e giù con altre sentenze pedagogiche simili. Sono stanco di questi colleghi. Eppure, alzo la testa e ricordo loro che il foglio bianco, a fine agosto, è l’esito a valle di un qualcosa che non ha funzionato a monte. E non ha funzionato sul versante dell’insegnamento, cioè sul nostro versante, quello dei docenti. Non su quello dell’apprendimento, sul versante degli studenti.
No. Tra leggi, decreti e raccomandazioni europee saranno più di vent’anni che viviamo nella scuola delle competenze, e non più in quella dei contenuti. Detto diversamente, da più di vent’anni dovremmo preoccuparci di far “sbocciare” le teste. Ma di tutte queste belle parole, di tutti questi enunciati, contenuti in quelle leggi, in quei decreti e in quelle raccomandazioni europee, non se n’è mai accorto nessuno. Bla bla psico-pedagogico. Punto. La scuola seria? Quella delle quantità.
Non se n’è accorta la scuola, che le dichiara, nei documenti ufficiali, ma che le ignora nella quotidiana prassi didattica. Solo belle parole. Non se n’è accorta l’Università, che dovrebbe formare, da più di vent’anni, i nuovi docenti. Non se n’è accorta l’Unione Europea, che finge di non vedere e di non capire il fatto che se l’Italia è negli ultimi posti delle rilevazioni
Ocse-Pisa non è dovuto a una straordinaria concentrazione di cretini, tutti sul suolo italico. No. Che, molto probabilmente, scriviamo “scuola delle competenze”, ma continuiamo a fare solo e soltanto scuola delle quantità. Ecco la ragione per la quale, forse, gli studenti italiani si collocano negli ultimi posti delle rilevazioni internazionali. Perché hanno docenti impreparati.
Lo immaginate un ospedale che, per creare il proprio buon nome nel territorio, s’impegni a far morire i pazienti? Giacché, se li salvasse tutti, non sarebbe un ospedale serio e rispettabile. Occorre farne morire una certa quantità. Ebbene, una scuola che promuove tutti, che fa sbocciare, anziché bocciare (specie i più “deboli”), non è una scuola seria (sostengono i colleghi di cui sono già stanco sin dal primo giorno). Gli ospedali, si sa, curano i malati, non i sani; si sforzano di farlo. La scuola, dal canto suo, dovrebbe formare teste ben fatte, non teste ricolme di nozioni, di numeri e di tabelline (da mandare a memoria). Così come in ospedale non entrano i sani. Nelle scuole non entrano i dotti. Eppure, i colleghi vorrebbero i propri studenti già laureati; già capaci di ascoltare, parlare, leggere, scrivere, prendere appunti, far di conto, praticare tre lingue straniere, comporre musica. Anche quest’anno scolastico, dunque, per me, è iniziato nel modo peggiore: con la scuola che boccia i suoi figli più deboli. Eppure, sogno ancora, e mi batto da più di trent’anni per tutta un’altra scuola. Per una scuola che faccia sbocciare le persone (come scriveva anni fa Gegè Scardaccione), specie i più deboli.