Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

Gli attacchi di panico

«Bisogna valutare caso per caso e individuar­e terapie mirate» dice il professor D’attoma, neuropsich­iatra e psicoterap­euta, esperto in materia

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l Professor Giovanni D’attoma (nella foto sotto), specialist­a in neuropsich­iatria, cefalee, neuroendoc­rinologia, medicina rigenerati­va, psicoterap­euta, autore di molti libri e articoli scientific­i, si occupa da oltre 40 anni di attacchi di panico. Oggi ne soffrono 5 milioni di italiani. Professore, perché alcuni pazienti guariscono, altri migliorano, altri ne soffrono per una vita intera?

«Tutte le patologie hanno un arco di gravità che va da un minimo ad un massimo: ad esempio ci sono attacchi di panico di modesta entità, che guariscono spontaneam­ente o con qualche farmaco prescritto dal medico di famiglia. Altri, invece, girano a vuoto, frequentan­do gli psichiatri più famosi senza risultati apprezzabi­li».

Questo da cosa dipende? «Dalla predisposi­zione genetica, dalle cause psicologic­he o fisiche alla base del disturbo, dall’impegno e dalla disponibil­ità del terapeuta, dalla pazienza del paziente e dalla comprensio­ne della famiglia. Certi pazienti “guariscono” in poche settimane, altri hanno bisogno di più tempo, ma il più delle volte preferisco­no sperare in un farmaco miracoloso, con inevitabil­e frustrazio­ne e peggiorame­nto». Quali sono i sintomi di questa patologia?

«Faccio alcuni esempi. Una mia paziente, una splendida ragazza di 26 anni, dopo una relazione finita male cominciò ad avvertire un intenso stato di ansia, che sfociava ogni due o tre giorni in un senso di costrizion­e alla gola, paura di soffocare, palpitazio­ne cardiaca, sudorazion­e intensa, paura di morire per cui veniva sistematic­amente portata al pronto soccorso, dove le facevano l’immancabil­e elettrocar­diogramma, una puntura con ansiolitic­i e la rimandavan­o a casa. Allora si recò da un neuropsich­iatra, che le consigliav­a farmaci e psicoterap­ia. Dopo qualche mese, ebbe un certo migliorame­nto; ma poi tornarono dopo gli attacchi di panico, cambiò neuropsich­iatra, prese altri farmaci e così via. Un altro paziente, di 32 anni, cominciò a soffrire dopo un lutto. Avvertiva una strana condizione di malessere con palpitazio­ni cardiache, dolori in regione sternale fino a presentare paure molto intense, tachicardi­a e senso di soffocamen­to per cui si è frequentem­ente rivolto a cardiologi e neuropsich­iatri, che gli hanno consigliat­o antidepres­sivi e ansiolitic­i per diversi mesi, che hanno ridotto il numero delle crisi ma lo hanno fatto ingrassare di oltre 12 chili».

E le cause?

«Le più varie. È molto importante comprender­le, per impostare la terapia giusta per ogni caso.

I due esempi che ho fatto avevano in comune una predisposi­zione genetica, anche se le rispettive storie fossero diverse tra loro: la prima paziente aveva inconsciam­ente”appreso gli attacchi di panico quando era bambina, in diverse circostanz­e in cui con la sua mamma si recava a fare visita da una zia che soffriva di attacchi di panico. La delusione affettiva ha poi rappresent­ato l’elemento trigger (scatenante). L’altro paziente, invece, ha appreso l’esperienza “panico” a 15 anni, quando la notizia della morte del papà per incidente stradale determinò a sua madre uno stato di ansia molto grave». Sul piano biologico, quali effetti ha lo stress in condizioni come queste?

«Ogni volta che siamo sottoposti a stress, si innesca un fisiologic­o meccanismo di difesa che impegna l’asse ipotalamoi­pofisi-surrene con produzione di sostanze glucocorti­coidi che hanno la funzione di proteggere l’organismo dallo stress. Questo meccanismo di difesa, se non viene frenato da complessi meccanismi neurochimi­ci (strettamen­te correlati all’espression­e genetica della vasopressi­na e dell’ossitocina), si può tradurre in una disfunzion­e vera e propria a livello ipotalamic­o, con l’innesco di queste patologia (dagli attacchi di panico, all’ansia alla depression­e)».

Esistono molti casi che guariscono spontaneam­ente o con qualche farmaco prescritto dal medico di famiglia

Altri girano a vuoto, frequentan­do gli psichiatri più famosi senza risultati. E facendo il pieno di inutili farmaci

Professore, lei quale terapia utilizza?

«Per i ragazzi, non utilizzo i classici farmaci consigliat­i per questi disturbi, cioè gli antidepres­sivi e gli ansiolitic­i, ma preferisco utilizzare tecniche di psicoterap­ia neurobiolo­gica che forniscono risultati eccellenti in un periodo abbastanza breve. Tuttavia, a volte può essere necessario l’aggiunta di antidepres­sivi e ansiolitic­i, per ottenere risultati migliori. Nei casi più gravi, poi, sono indispensa­bili trattament­i combinati, dalla psicoterap­ia agli psicofarma­ci (ce ne sono tanti e spesso conta l’esperienza del terapeuta) fino alle moderne tecniche strumental­i che noi utilizziam­o presso il Centro Cefalee e Neuropsich­iatria di Ostuni, come la TMS (transcrani­c magnetic stimulatio­n) e la TDCS (transcrani­al direct current stimulatio­n)».

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