Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Dabo e Mimmo la loro storia diventa un film
Al Giovanni Paolo II di Bari una bella vicenda di umanità e di accoglienza che ora diventa un film: «Apolidi»
Dabo arriva dalla Guinea e non ha mai visto il mare. Laureato, sbarca in Italia e fa il giro dei Cara per finire nel 2016 in quello di Bari. Si ammala. Viene mandato all’Oncologico. Ha un carcinoma. Mimmo, il medico, lo prende in cura. E l’intero ospedale lo adotta. Fino a farne una storia che diventerà un film: «Apolidi».
Le «medical humanities» sono un approccio anglosassone al rapporto fra paziente e medicina, guardano alla tutela e alla cura della salute come responsabilità collettiva e individuale, chiamano in causa i sistemi politici di welfare e l’intero panorama della dimensione antropologica della cura. Uomini, non numeri, per usare una formula facile. I migranti, per esempio. Il nostro sistema di accoglienza non brilla per «humanities», è un dato di fatto. Quanti sono i migranti abbandonati a se stessi e alle malattie che si portano dietro o che contraggono dopo le spaventose traversate nel deserto e nel mare? Magari senza saper neanche nuotare.
Come Dabo, che arriva dalla Guinea e non aveva mai visto il mare. Ha una laurea triennale nel suo paese in scienze politiche, sogna di andare in Francia. E sbarcato in Italia fa il giro dei Cara per finire in quello di Bari, nel 2016. Sta male. Lo portano a Lecce, tosse e sangue non fanno presagire niente di buono. Purtroppo non è la tubercolosi che sospettavano. Viene mandato a Bari all’oncologico con una diagnosi di carcinoma polmonare con metastasi alle ossa. Al Giovanni Paolo II di Bari i pazienti non sono numeri. Per questo sono tutti uguali. Non incontri infermieri sgarbati e urlanti, non personale amministrativo accidioso e scostante, non medici supponenti e atteggiati a semi dei, non bagni da terzo mondo o corridoi affollati di parenti con colazione al sacco. Non è un ospedale classico, diciamo. È il luogo in cui le «huviamente manities» sono la pratica medica quotidiana.
Mimmo fa l’oncologo e sa che la prima medicina è l’umanità. A Dabo viene somministrato quel cocktail di farmaci e umanità, consulenza psicologica e amicizia come in tutti gli altri reparti dell’ospedale. Dove le terapie avanzate come l’immunoterapia sono di casa prima ancora che diventassero famose, la ricerca si aggiorna quotidianamente, il confronto con tutte le esperienze anche internazionali è linfa vitale per la qualità di tutti, medici e infermieri. Nel reparto di Mimmo il cocktail viene somministrato in dosi generose, a Dabo come a tutti. Amicizia è parola abusata che trova in quei luoghi un senso compiuto e antico, sono compagni di s/avventura, «cum panis» da spezzare insieme, tutti. Salato. Mimmo studia il caso, nuove analisi nuovi vetrini, la diagnosi cambia in adenocarcinoma per il cui trattamento può essere più efficace una pillola, decide che la chemio non fa per il ragazzo di Guinea, occorre provare le nuove terapie. Che ov-
Il modello
Mimmo e Dabo, un esempio felice di «medical humanities» raro da queste parti
sono costose e non disponibili.
Lottare contro le burocrazie è spesso esercizio sfibrante, ma va fatto. Fa il casino, Mimmo, ma alla fine le pillole costose arrivano, Dabo non è un «ultimo». È solo un paziente da salvare. Le metastasi erano diffuse, in casi simili la diagnosi e le previsioni sono quasi sempre «infauste» come si dice nella strana lingua dei medici... Terapia intensiva, accudimento del personale, attenzione ad ogni sintomo, analisi e bilancio della terapia in progress. Come per tutti i pazienti. L’ambiente resta quello del dolore, ma mitigato dallo «stare fra amici». Non è poco, è immensamente tanto. Dabo migliora, vuole laurearsi, trovare un lavoro. Terapia e studio, da solo. Mimmo in qualche modo lo adotta, insieme alle straordinarie ragazze del suo reparto. L’Adisu accoglie Dabo in una delle sue case dello studente. È il principio di rete che funziona ogni tanto, per i migranti quasi mai.
La rete riannoda dolori e speranze, professioni e istituzioni, persone ed enti. Mimmo pazientemente lavora a questi nodi, Dabo sta sempre meglio. Il Natale lo passa a casa di Mimmo il ragazzo che non sapeva nuotare e ha attraversato il Mediterraneo. Diventano amici. Si laurea, Dabo. La malattia regredisce ancora, è vivo e sta bene, non è andato ad ingrossare le fila dei migranti ignoti morti o scomparsi, abbandonati e persi nelle terre del paradiso che sognavano. Si è fermata la malattia, Dabo non si ferma un momento. Fa il mediatore culturale, lavora, si costruisce un futuro.
Mimmo è il dottor Domenico Galetta, responsabile di oncologia medica del Giovanni Paolo II. La storia di Mimmo e Dabo è diventata un film, Apolidi, con la regia di Alessandro Zizzo, prodotto da Sinossi film, Agorà e Apulia Film Commission. Apolidi, come cantavano gli anarchici di un tempo: «nostra patria è il mondo intero».