Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Il «Bunker» di Giangrande un’installazione d’autore nel sottosuolo di Monopoli
Al Prospero Fest il progetto dell’artista pugliese: «Un lavoro di squadra»
Èstato presentato ieri a Monopoli nell’ambito del «Prospero Fest» il progetto “Bunker” di Michele Giangrande, in un vero e centralissimo rifugio antiaereo della seconda guerra mondiale, d’ora in poi ribattezzato Bunker Museum e dunque disponibile a nuovi usi, dopo il protocollo d’intesa s0ttoscritto tra il comune di Monopoli e il Museo Pino Pascali. Un’opera unica e corale per guardare alla storia e riflettere su quello che siamo, con performance, installazioni e interazioni immersive con il pubblico.
Giangrande, “Bunker” è alla sua seconda tappa, dopo l’esordio nel bunker di Corato, il 25 aprile di quest’anno. Perché un progetto ideato per i luoghi che hanno conservato le ferite della storia?
«Il progetto nasce con una vocazione itinerante. Dopo Corato e Monopoli, penso di portarlo oltre confine individuando altri rifugi disseminati in tutta Europa per riproporre la mia duplice lettura. Una rivolta al passato e l’altra al presente, dove ancora tracce dei drammatici eventi riverberano o si ripropongono sotto nuove vesti».
In che modo avviene questo andirivieni tra passato e presente?
«Nelle installazioni che compongono “Bunker” ci sono precisi riferimenti alla contemporaneità, per esempio attraverso due edizioni dell’Unità (datate 30 Luglio 2014 e 31 Luglio 2014) che annunciano in prima pagina: “hanno ucciso l’Unità/ l’Unità è viva”. Rimandi e metafore a una condizione politica e sociale particolarmente inquieta».
Di grande impatto risulta anche l’opera che propone un crescente annullamento cromatico della bandiera italiana. Cosa vuol dire?
«La prima bandiera presenta i tre campi di colore come nell’originale, verde, bianco, rosso, e poi progressivamente, nelle successive, la parte bianca oscura le altre fino a prendere definitivamente il sopravvento. In questo caso si può intendere sia la disintegrazione dell’identità nazionale, sia viceversa, osservando da un altro punto di vista, un passaggio dal nulla a una ritrovata unità con il riapparire del tricolore».
Insomma un’opera palindroma, come molti suoi lavori?
«Tutta la mostra è bivalente, con una duplice lettura. L’ho concepita come opera unica dove il luogo non è il contenitore delle mie opere, ma dove performance e installazioni, in nove tappe come i gironi dell’inferno, accompagnano lo spettatore in un viaggio disturbante nel sottosuolo. In questa fase non spiego le opere, mi interessa attivare canali emotivi e non narrativi. L’apparato didattico e documentario è stato affidato ad Alessandro Piva, che ha spiegato la genesi delle opere in un film a corredo dell’evento».
“Bunker” è un progetto che parla più linguaggi e si avvale di molte professionalità.
«Sì, “Bunker” è un lavoro di squadra orientato su un registro non verbale ma rivolto ai sensi, con le musiche di Stefano Ottomano, la fotografia di Marino Colucci, la scenografia di Angela Varvara e la curatela di Alexander Larrarte, senza i quali non sarebbe stato possibile evocare l’eco drammatica di un’epoca oscura a 8 metri sotto terra e per circa 400 metri di percorso espositivo».