Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
La mia Foggia in formaldeide
Se adottassimo il metodo Bruce Chatwin, secondo cui le città si giudicano dai loro ingressi, dalle scritte sui muri e dalle parole di chi le abita, Foggia e la Capitanata avrebbero di che preoccuparsi. Arrivandoci da ogni punto cardinale si ha l’impressione di entrare in un posto in cui è da poco finita una guerra, in cui miseria e cani randagi sono l’unico orizzonte offerto agli stranieri. Le scritte sui muri parlano d’amore e di pallone, che qui sono la stessa cosa; ma anche di case popolari e giustizia sociale (rivendicata da uno dei popoli più disastrati del Sud, con apici di disoccupazione del 40%). Per non parlare della lingua, così rudimentale da sembrare un ordigno, piena zeppa di consonanti e «parlata con uno straccio in bocca come fosse un blues» (così la descrisse Paolo Conte, ma nessuno dei Foggiani se ne accorse perché nesrigenziali suno di Noi sa riconoscere i complimenti). Ma Foggia non aver paura, non è da questi particolari che si giudica una città: una città la vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia. Cioè dal valore aggiunto di questa terra, che non esiterei a individuare nel capitale umano. Quello a cui le assicurazioni assegnano un prezzo in sede di risarcimento, sebbene assicurare un’auto a Treviso costi l’80% meno che assicurarla a Cerignola. La gente – nel bene e nel male, straordinaria risorsa e al tempo stesso limite invalicabile – rimane il campanile più alto della grande pianura del Tavoliere, in cui la depressione socioeconomica si specchia nelle strade sfondate (alle cui voragini sembriamo esserci rassegnati), nelle infrastrutture antecedenti il piano Marshall (quando ci sono e non le hanno depredate), nel linguaggio muscolare agli incroci delle strade (come se a questa gente non fosse rimasta che la rissa, la necessità della rivolta). La Capitanata paga decenni di classi politiche e dicosì mediocri da abbassare ulteriormente la media nazionale, ha preferito – ispirata dalla sottocultura proletaria del «tengo famiglia» - farsi rappresentare ai tavoli negoziali da manager improvvisati spesso preceduti da un accento imbarazzante. Ciò nonostante è rimasta un laboratorio molto conflittuale e per questo interessante, la Capitanata: espressione delle origini del capo del governo Giuseppe Conte (Volturara Appula), ma anche succursale garganica del Papeete Beach (dimora Casanova a Lesina); flagellata dal fenomeno criminale della cosiddetta «quarta mafia», che oggi ispira romanzi e fiction ma ieri era considerata un vivace alterco tra pastori; meta di turisti da tutto il mondo, nonostante il Gargano costi più della Costa Smeralda e il manuale dell’accoglienza sia rimasto aperto all’indice. Discorso a parte lo meriterebbe l’università, la conquista più importante dalla fine della seconda guerra, che però s’è fatta ingoiare da un mulinello d’odio che l’ha portata ad autodenunciarsi (nel pieno rispetto dell’autolesionismo della mia gente) e a perdere di vista la missione, ad annacquare la scienza col rancore. Rimarrebbe infine l’agroalimentare, settore che da solo potrebbe issare la Capitanata sul tetto del mondo se non fosse per l’incapacità storica di fare sistema, di organizzare una rinascita.
Sarà per tutte queste cose che i foggiani che vivono altrove, quando tornano in Capitanata e la trovano esattamente come l’hanno lasciata – con la stessa sterpaglia tra le crepe dei marciapiedi, le stesse scritte sui muri e una sensibile proliferazione di miseria e cani randagi – la prima cosa a cui pensano è che qualcuno l’abbia imbalsamata, imbottendola di formaldeide per esporla in cantina. Come la testa di un cervo. Come le cose che spaventano ma sono innocue, che non si muovono perché non sanno dove andare.