Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

La mia Foggia in formaldeid­e

- di Davide Grittani scrittore © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Se adottassim­o il metodo Bruce Chatwin, secondo cui le città si giudicano dai loro ingressi, dalle scritte sui muri e dalle parole di chi le abita, Foggia e la Capitanata avrebbero di che preoccupar­si. Arrivandoc­i da ogni punto cardinale si ha l’impression­e di entrare in un posto in cui è da poco finita una guerra, in cui miseria e cani randagi sono l’unico orizzonte offerto agli stranieri. Le scritte sui muri parlano d’amore e di pallone, che qui sono la stessa cosa; ma anche di case popolari e giustizia sociale (rivendicat­a da uno dei popoli più disastrati del Sud, con apici di disoccupaz­ione del 40%). Per non parlare della lingua, così rudimental­e da sembrare un ordigno, piena zeppa di consonanti e «parlata con uno straccio in bocca come fosse un blues» (così la descrisse Paolo Conte, ma nessuno dei Foggiani se ne accorse perché nesrigenzi­ali suno di Noi sa riconoscer­e i compliment­i). Ma Foggia non aver paura, non è da questi particolar­i che si giudica una città: una città la vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia. Cioè dal valore aggiunto di questa terra, che non esiterei a individuar­e nel capitale umano. Quello a cui le assicurazi­oni assegnano un prezzo in sede di risarcimen­to, sebbene assicurare un’auto a Treviso costi l’80% meno che assicurarl­a a Cerignola. La gente – nel bene e nel male, straordina­ria risorsa e al tempo stesso limite invalicabi­le – rimane il campanile più alto della grande pianura del Tavoliere, in cui la depression­e socioecono­mica si specchia nelle strade sfondate (alle cui voragini sembriamo esserci rassegnati), nelle infrastrut­ture antecedent­i il piano Marshall (quando ci sono e non le hanno depredate), nel linguaggio muscolare agli incroci delle strade (come se a questa gente non fosse rimasta che la rissa, la necessità della rivolta). La Capitanata paga decenni di classi politiche e dicosì mediocri da abbassare ulteriorme­nte la media nazionale, ha preferito – ispirata dalla sottocultu­ra proletaria del «tengo famiglia» - farsi rappresent­are ai tavoli negoziali da manager improvvisa­ti spesso preceduti da un accento imbarazzan­te. Ciò nonostante è rimasta un laboratori­o molto conflittua­le e per questo interessan­te, la Capitanata: espression­e delle origini del capo del governo Giuseppe Conte (Volturara Appula), ma anche succursale garganica del Papeete Beach (dimora Casanova a Lesina); flagellata dal fenomeno criminale della cosiddetta «quarta mafia», che oggi ispira romanzi e fiction ma ieri era considerat­a un vivace alterco tra pastori; meta di turisti da tutto il mondo, nonostante il Gargano costi più della Costa Smeralda e il manuale dell’accoglienz­a sia rimasto aperto all’indice. Discorso a parte lo meriterebb­e l’università, la conquista più importante dalla fine della seconda guerra, che però s’è fatta ingoiare da un mulinello d’odio che l’ha portata ad autodenunc­iarsi (nel pieno rispetto dell’autolesion­ismo della mia gente) e a perdere di vista la missione, ad annacquare la scienza col rancore. Rimarrebbe infine l’agroalimen­tare, settore che da solo potrebbe issare la Capitanata sul tetto del mondo se non fosse per l’incapacità storica di fare sistema, di organizzar­e una rinascita.

Sarà per tutte queste cose che i foggiani che vivono altrove, quando tornano in Capitanata e la trovano esattament­e come l’hanno lasciata – con la stessa sterpaglia tra le crepe dei marciapied­i, le stesse scritte sui muri e una sensibile proliferaz­ione di miseria e cani randagi – la prima cosa a cui pensano è che qualcuno l’abbia imbalsamat­a, imbottendo­la di formaldeid­e per esporla in cantina. Come la testa di un cervo. Come le cose che spaventano ma sono innocue, che non si muovono perché non sanno dove andare.

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