Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Pupi Avati al Bi-Talk sul ‘68 «In quel periodo giravamo tanti film inguardabili»
Il regista bolognese rilegge la stagione dell’impegno e della creatività senza freni
«Il disamore del pubblico per il cinema italiano nasce dai nostri film di quegli anni». Una divertita ammissione di colpa che arriva direttamente da Pupi Avati, uno dei più poliedrici registi italiani capace di passare dall’horror (Il signor diavolo) all’epico (I cavalieri che fecero l’impresa), dal dramma (Regalo di Natale, Il papà di Giovanna) alla commedia (Gli amici del bar Margherita) «senza scendere troppo a compromessi». Il regista emiliano esordiva dietro la macchina da presa nel 1968, dopo aver provato a sfondare nel jazz.
La terza edizione di BiTalk, il festival «diffuso» (da ieri al 3 novembre) nel centro storico di Bitonto, si concentra sul ’68 e sugli anni di piombo approfondendo un decennio di lotte, utopie e violenza con ospiti come i pm Gherardo Colombo e Giuliano Turone, Vittorio Sgarbi, Alessio Boni e lo stesso Avati, stasera protagonista alle 20 al teatro Traetta. L’indagine sul cinema di quegli anni si completerà con il ciclo di incontri «CineFocus Italia70: il cinema di piombo».
Avati, come ha vissuto il ’68 il trentenne che esordiva al cinema con il grottesco Balsamus, l’uomo di Satana?
«In modo inconsapevole. Quando mi chiedono se ho fatto il ’68, rispondo di no. Non mi sono reso conto di niente, ma guardando i miei primi due film (il secondo fu Thomas e gli indemoniati) si può capire quanto fossero frutto dell’aria del tempo».
In che senso?
«Nella ricerca della provocazione a tutti i costi, nella messa in discussione di quello che era stato il cinema italiano fino ad allora. Facevamo film velleitari, confusi, arzigogolati. Ricordo che la gente usciva dopo
Sopra, un’immagine dal primo film di Pupi Avati,
Balsamus, l’uomo di Satana, che uscì proprio nel 1968. Sotto, il regista oggi, ottantenne il primo tempo di Balsamus, ci davamo di gomito, pensavamo di averli colpiti. I miei primi film credo non siano mai stati trasmessi dalle tv: fanno bene. Lì è nato il disamore del pubblico per il cinema italiano».
Com’era il cinema che contestavate?
«Aveva un vivace rapporto con il pubblico che poi è stato pregiudicato. Cercavano tutti di seguire la lezione dell’Opera aperta di Umberto Eco. C’era stato I pugni in tasca di Bellocchio, ma fu 8½ di Fellini a generare l’equivoco del regista come figura al centro di qualunque ipotesi creativa, quasi onnipotente. Tutti a quel punto volevano fare i Fellini. Io da venditore di surgelati decisi di fare cinema dopo averlo visto».
La casa dalle finestre che ridono ha contribuito all’epoca d’oro del cinema di genere degli anni ’70. La fantascienza, l’horror, il poliziottesco. Un patrimonio dimenticato?
«Abbiamo smarrito quella strada. Si è abdicato a favore della commedia, pensando potesse reggere da sola tutta la nostra cinematografia; altri paesi più evoluti hanno proseguito. Il genere funziona a patto che il narratore mantenga una forte identità, non deve esserne ostaggio per incontrare il favore di platee che oggi non ci sono più. Riuscivamo a esportare film all’estero. I poliziotteschi erano modesti. Oggi alcuni, rivisti, sono imbarazzanti. I film sono come il latte o i farmaci: hanno una data di scadenza».
Quel clima però produsse anche il cinema civile di Elio Petri e Francesco Rosi.
«Alcuni sono capolavori che non perdono efficacia nel tempo, come Salvatore Giuliano o Le mani sulla città. Ma quelli che resistono meglio al tempo sono le opere fatte di poesia purissima come Accattone di Pasolini o Amarcord di Fellini».
Quale di quei filoni ha più influenzato i cineasti di oggi?
«Nessuno. Oggi i cinefili sono interessati al cinema del presente, specialmente a quello americano, ignorano i classici. Io insegno alla scuola di cinema e quando parlo di De Sica, mi chiedono, “chi, Christian?”».
Per questo ha ripreso la strada del genere con il suo ultimo bellissimo film, Il signor diavolo?
«Le emozioni base su cui lavoro sono il riso, la paura e la commozione. Sono tornato alla paura perché mi piace muovermi sempre. Soprattutto sono tornato al cinema, dopo anni di fiction. Ho capito che la tv butta tutto via, lascia solo i numeri dell’Auditel e brutti titoli di giornali. Dopo cinque anni, ho ritrovato una grande attenzione nei miei confronti. Qualcosa che potrà restare anche tra 20 anni. Questo è il cinema».