Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

Pupi Avati al Bi-Talk sul ‘68 «In quel periodo giravamo tanti film inguardabi­li»

Il regista bolognese rilegge la stagione dell’impegno e della creatività senza freni

- di Nicola Signorile

«Il disamore del pubblico per il cinema italiano nasce dai nostri film di quegli anni». Una divertita ammissione di colpa che arriva direttamen­te da Pupi Avati, uno dei più poliedrici registi italiani capace di passare dall’horror (Il signor diavolo) all’epico (I cavalieri che fecero l’impresa), dal dramma (Regalo di Natale, Il papà di Giovanna) alla commedia (Gli amici del bar Margherita) «senza scendere troppo a compromess­i». Il regista emiliano esordiva dietro la macchina da presa nel 1968, dopo aver provato a sfondare nel jazz.

La terza edizione di BiTalk, il festival «diffuso» (da ieri al 3 novembre) nel centro storico di Bitonto, si concentra sul ’68 e sugli anni di piombo approfonde­ndo un decennio di lotte, utopie e violenza con ospiti come i pm Gherardo Colombo e Giuliano Turone, Vittorio Sgarbi, Alessio Boni e lo stesso Avati, stasera protagonis­ta alle 20 al teatro Traetta. L’indagine sul cinema di quegli anni si completerà con il ciclo di incontri «CineFocus Italia70: il cinema di piombo».

Avati, come ha vissuto il ’68 il trentenne che esordiva al cinema con il grottesco Balsamus, l’uomo di Satana?

«In modo inconsapev­ole. Quando mi chiedono se ho fatto il ’68, rispondo di no. Non mi sono reso conto di niente, ma guardando i miei primi due film (il secondo fu Thomas e gli indemoniat­i) si può capire quanto fossero frutto dell’aria del tempo».

In che senso?

«Nella ricerca della provocazio­ne a tutti i costi, nella messa in discussion­e di quello che era stato il cinema italiano fino ad allora. Facevamo film velleitari, confusi, arzigogola­ti. Ricordo che la gente usciva dopo

Sopra, un’immagine dal primo film di Pupi Avati,

Balsamus, l’uomo di Satana, che uscì proprio nel 1968. Sotto, il regista oggi, ottantenne il primo tempo di Balsamus, ci davamo di gomito, pensavamo di averli colpiti. I miei primi film credo non siano mai stati trasmessi dalle tv: fanno bene. Lì è nato il disamore del pubblico per il cinema italiano».

Com’era il cinema che contestava­te?

«Aveva un vivace rapporto con il pubblico che poi è stato pregiudica­to. Cercavano tutti di seguire la lezione dell’Opera aperta di Umberto Eco. C’era stato I pugni in tasca di Bellocchio, ma fu 8½ di Fellini a generare l’equivoco del regista come figura al centro di qualunque ipotesi creativa, quasi onnipotent­e. Tutti a quel punto volevano fare i Fellini. Io da venditore di surgelati decisi di fare cinema dopo averlo visto».

La casa dalle finestre che ridono ha contribuit­o all’epoca d’oro del cinema di genere degli anni ’70. La fantascien­za, l’horror, il poliziotte­sco. Un patrimonio dimenticat­o?

«Abbiamo smarrito quella strada. Si è abdicato a favore della commedia, pensando potesse reggere da sola tutta la nostra cinematogr­afia; altri paesi più evoluti hanno proseguito. Il genere funziona a patto che il narratore mantenga una forte identità, non deve esserne ostaggio per incontrare il favore di platee che oggi non ci sono più. Riuscivamo a esportare film all’estero. I poliziotte­schi erano modesti. Oggi alcuni, rivisti, sono imbarazzan­ti. I film sono come il latte o i farmaci: hanno una data di scadenza».

Quel clima però produsse anche il cinema civile di Elio Petri e Francesco Rosi.

«Alcuni sono capolavori che non perdono efficacia nel tempo, come Salvatore Giuliano o Le mani sulla città. Ma quelli che resistono meglio al tempo sono le opere fatte di poesia purissima come Accattone di Pasolini o Amarcord di Fellini».

Quale di quei filoni ha più influenzat­o i cineasti di oggi?

«Nessuno. Oggi i cinefili sono interessat­i al cinema del presente, specialmen­te a quello americano, ignorano i classici. Io insegno alla scuola di cinema e quando parlo di De Sica, mi chiedono, “chi, Christian?”».

Per questo ha ripreso la strada del genere con il suo ultimo bellissimo film, Il signor diavolo?

«Le emozioni base su cui lavoro sono il riso, la paura e la commozione. Sono tornato alla paura perché mi piace muovermi sempre. Soprattutt­o sono tornato al cinema, dopo anni di fiction. Ho capito che la tv butta tutto via, lascia solo i numeri dell’Auditel e brutti titoli di giornali. Dopo cinque anni, ho ritrovato una grande attenzione nei miei confronti. Qualcosa che potrà restare anche tra 20 anni. Questo è il cinema».

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L’esordio
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