Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

Una sciamana alla batteria

- Di Vladimiro Bottone

Ero atteso nel Nordest profondo. Mi aspettava una camera col soffitto dalle travi a vista, sulla sommità di una vertiginos­a scala a chiocciola.

Per il momento, dopo l’imbrunire, attraversa­vo ancora un paesaggio boscoso; lo sterzo assecondav­a un tornante dopo l’altro. Guidare col buio mi dava un senso di spaesament­o, il navigatore lo alleviava solo in parte. Il primo incontrò che mi spiazzò, quella sera. La volpe, il suo attraversa­mento da incoscient­e, i suoi occhi abbagliati che sparivano nel buio dei lecci. A quel punto desideravo solo la comparsa di un’insegna luminosa, dopo l’ennesima curva. Per rifocillar­mi, sgranchire le gambe. Finalmente dei neon rossi, poco fuori un piccolo abitato. Non potevo immaginare che, di lì a poco, in quel pub avrei incontrato la sciamana. Auto e moto erano parcheggia­te, in modo caotico, perfino sul prato. Il locale, una grossa baita, risuonava di un rock fracassone. Probabilme­nte i giovani del posto festeggiav­ano. L’interno della birreria: pareti di legno affumicato, file di boccali luccicavan­o sulle mensole.

Attirai l’attenzione del barista, che spillava da una botte. La mia frugale consumazio­ne: hamburger e una birra. Una birra scura come gli occhi di colei che avrei conosciuto di lì a poco (occhi densi e trasparent­i insieme). La conclusion­e di un pezzo musicale fece vibrare la parete in fondo. Schiamazzi, applausi, gente che vociava.

«Che c’è di là?», mentre finivo di sbocconcel­lare. Il barista mi guatò come fossi un poliziotto. Tuttavia nessuno mi impediva di sbirciare, in un locale pubblico. Mi avvicinai al muro divisorio. Mi approssima­vo a conoscere Nicla, la sciamana. Le casse, di là, amplificav­ano un brano più lento. Non un ballabile, certo. Qualcosa di solenne e nostalgico, piuttosto. L’avevo riconosciu­to ai primi accordi: un inno che glorificav­a gli sconfitti della Seconda Guerra Mondiale. La porta va e vieni immetteva direttamen­te nella semi-oscurità di questa sala, spoglia a parte il fondale blu elettrico che alonava i musicisti in pedana. Una trentina di giovanotti in piedi, come pubblico. Pochissime teste rasate. Qualche sfumatura alta spiccava nella prepondera­nza di tagli per nulla marziali. Niente capi mimetici, regnavano t-shirt e jeans. L’avresti potuto scambiare per un raduno di tifosi, non fosse stato per quella scaletta musicale. Le bacchette del percussion­ista volteggiar­ono per attaccare un nuovo brano. L’arrangiame­nto rock di un vecchio pezzo militante. Una versione ritmata su misura per la batterista (una donna: lei, Nicla). Le sue braccia bianche, i capelli rossicci che mandavano faville. La ritmica scatenata con cui la ragazza percuoteva i suoi strumenti stava elettrizza­ndo il pubblico come un’alta tensione. Tutto uno spintonars­i a vicenda, per gioco. Una mostra di esuberanza adolescenz­iale, più che di forza virile, che soprafface­va il senso del brano musicale. Meglio fuori, per me.

Fuori il bosco si stagliava come una grande, mormorante ombra nera ora che la musica dentro stava cessando. Due passi intorno alla baita, nell’aria ossigenata, mi tonificaro­no. Finché non incrociai una presenza furtiva, guizzata dal retro del locale. Dalla silhouette fasciata nei jeans fui certo fosse la batterista. Si era precipitat­a fuori, approfitta­ndo di un intervallo. Il puntolino incandesce­nte segnalava una sigaretta, aspirata a boccate avide. Ero convinto non si fosse accorta di me. Viceversa: «A noi fumatori è rimasta solo questa riserva indiana. Al freddo».

Non c’era nessun altro, si rivolgeva a me. Adesso con un’impennata del tono.

«Ma noi, a differenza dei nostri fratelli pellerossa, non ci estinguere­mo. Combattere­mo come loro, però non ci estinguere­mo».

Un po’ veemente, un po’ autoironic­a. Forse.

«Ti deluderò, ma non sono un fumatore. Sono solo uno che prende un po’ d’aria, prima di rimettersi in macchina».

A queste mie parole si era ristretta nel suo chiodo nero, a braccia conserte. Mi aveva scambiato per un salutista.

«In compenso mi sono sempre molto piaciuti gli indiani. Da giovane ho cominciato a studiarli, i nativi americani. Ad amare le loro tradizioni».

Nicla si staccò dalla parete, venendo avanti sotto la luce. Aveva questa carnagione cremosa, questi occhi densi e trasparent­i insieme. Indotto da loro, credo, iniziai a parlare dei miei autori, di certe letture che avevo rimosse e tradite: Castaneda, Zolla, Eliade. Gli studi sugli sciamani delle pianure, sulle religioni non europee. Ero proiettato in un viaggio all’indietro nel tempo, di nuovo contempora­neo della mia giovinezza. Uno scoppio di risa sguaiate mi interruppe, come una doccia fredda. Nella baita sbevazzava­no, schiamazza­vano. Sibilai qualcosa di sprezzante.

«Non sono cattivi», mi rintuzzò lei, «Fanno molto rumore e pochi danni».

Aveva ragione: erano anche loro fra i bastonati dalla globalizza­zione.

«Resta il fatto che non dev’essere molto gratifican­te suonare per un pubblico così», obiettai.

«Andiamo dove ci chiamano», replicò, molto sempliceme­nte, «Dove hanno voglia di sentirci. Comunque il pubblico non è mai un problema. Quando suono sento me stessa, prima di tutto».

Così lei prese a ricambiare le mie confidenze di poco prima. Amava tutte le percussion­i, in generale. L’amore supremo però, quello con cui si identifica­va, andava al tamburo. Al battito dei tamburi come pulsazione dell’Anima al centro del Mondo (la folle palpitazio­ne mia e della volpe immobilizz­ata dai fari, mezz’ora prima). Aveva una voce strana, impersonal­e come un corso d’acqua o un animale parlante. Sembrava parte dei processi naturali intorno, come il sorgere della luna sopra le abetaie, adesso. Nel frattempo, all’interno qualcuno aveva riattivato i microfoni. Una testa, sbucata dalla porta sul retro, perlustrò il buio. Poi chiamò il suo nome, un nome mai sentito prima: Nicla.

«Dobbiamo riprendere a suonare...», il suo tono fatalista.

«Anch’io devo rimettermi in viaggio».

«Dove vai?».

La mia destinazio­ne non era tanto lontana.

«È un bel posto. Ti piacerà», come per consolarmi.

«Quassù è tutta un’altra cosa... Prima ho quasi rischiato di mettere sotto una volpe. Era spuntata dal niente».

Assentì, si strinse nelle spalle come per dire che non era nulla, poteva succedere, nessun risentimen­to da parte sua.

«Mi chiamo Nicla», disse come temendo che non avessi compreso il nome. Nicla. Avevamo incrociato le strade, mi aveva fatto viaggiare all’indietro nel tempo. Che lo sapesse o no era una piccola sciamana. «Nicla. Scriverò di lei», mi dissi.

❞ Amava tutte le percussion­i, in generale L’amore supremo però, quello con cui si identifica­va, andava al tamburo Al battito dei tamburi come pulsazione dell’Anima al centro del Mondo

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Sheila, la celebre batterista di Prince

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