Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Una sciamana alla batteria
Ero atteso nel Nordest profondo. Mi aspettava una camera col soffitto dalle travi a vista, sulla sommità di una vertiginosa scala a chiocciola.
Per il momento, dopo l’imbrunire, attraversavo ancora un paesaggio boscoso; lo sterzo assecondava un tornante dopo l’altro. Guidare col buio mi dava un senso di spaesamento, il navigatore lo alleviava solo in parte. Il primo incontrò che mi spiazzò, quella sera. La volpe, il suo attraversamento da incosciente, i suoi occhi abbagliati che sparivano nel buio dei lecci. A quel punto desideravo solo la comparsa di un’insegna luminosa, dopo l’ennesima curva. Per rifocillarmi, sgranchire le gambe. Finalmente dei neon rossi, poco fuori un piccolo abitato. Non potevo immaginare che, di lì a poco, in quel pub avrei incontrato la sciamana. Auto e moto erano parcheggiate, in modo caotico, perfino sul prato. Il locale, una grossa baita, risuonava di un rock fracassone. Probabilmente i giovani del posto festeggiavano. L’interno della birreria: pareti di legno affumicato, file di boccali luccicavano sulle mensole.
Attirai l’attenzione del barista, che spillava da una botte. La mia frugale consumazione: hamburger e una birra. Una birra scura come gli occhi di colei che avrei conosciuto di lì a poco (occhi densi e trasparenti insieme). La conclusione di un pezzo musicale fece vibrare la parete in fondo. Schiamazzi, applausi, gente che vociava.
«Che c’è di là?», mentre finivo di sbocconcellare. Il barista mi guatò come fossi un poliziotto. Tuttavia nessuno mi impediva di sbirciare, in un locale pubblico. Mi avvicinai al muro divisorio. Mi approssimavo a conoscere Nicla, la sciamana. Le casse, di là, amplificavano un brano più lento. Non un ballabile, certo. Qualcosa di solenne e nostalgico, piuttosto. L’avevo riconosciuto ai primi accordi: un inno che glorificava gli sconfitti della Seconda Guerra Mondiale. La porta va e vieni immetteva direttamente nella semi-oscurità di questa sala, spoglia a parte il fondale blu elettrico che alonava i musicisti in pedana. Una trentina di giovanotti in piedi, come pubblico. Pochissime teste rasate. Qualche sfumatura alta spiccava nella preponderanza di tagli per nulla marziali. Niente capi mimetici, regnavano t-shirt e jeans. L’avresti potuto scambiare per un raduno di tifosi, non fosse stato per quella scaletta musicale. Le bacchette del percussionista volteggiarono per attaccare un nuovo brano. L’arrangiamento rock di un vecchio pezzo militante. Una versione ritmata su misura per la batterista (una donna: lei, Nicla). Le sue braccia bianche, i capelli rossicci che mandavano faville. La ritmica scatenata con cui la ragazza percuoteva i suoi strumenti stava elettrizzando il pubblico come un’alta tensione. Tutto uno spintonarsi a vicenda, per gioco. Una mostra di esuberanza adolescenziale, più che di forza virile, che sopraffaceva il senso del brano musicale. Meglio fuori, per me.
Fuori il bosco si stagliava come una grande, mormorante ombra nera ora che la musica dentro stava cessando. Due passi intorno alla baita, nell’aria ossigenata, mi tonificarono. Finché non incrociai una presenza furtiva, guizzata dal retro del locale. Dalla silhouette fasciata nei jeans fui certo fosse la batterista. Si era precipitata fuori, approfittando di un intervallo. Il puntolino incandescente segnalava una sigaretta, aspirata a boccate avide. Ero convinto non si fosse accorta di me. Viceversa: «A noi fumatori è rimasta solo questa riserva indiana. Al freddo».
Non c’era nessun altro, si rivolgeva a me. Adesso con un’impennata del tono.
«Ma noi, a differenza dei nostri fratelli pellerossa, non ci estingueremo. Combatteremo come loro, però non ci estingueremo».
Un po’ veemente, un po’ autoironica. Forse.
«Ti deluderò, ma non sono un fumatore. Sono solo uno che prende un po’ d’aria, prima di rimettersi in macchina».
A queste mie parole si era ristretta nel suo chiodo nero, a braccia conserte. Mi aveva scambiato per un salutista.
«In compenso mi sono sempre molto piaciuti gli indiani. Da giovane ho cominciato a studiarli, i nativi americani. Ad amare le loro tradizioni».
Nicla si staccò dalla parete, venendo avanti sotto la luce. Aveva questa carnagione cremosa, questi occhi densi e trasparenti insieme. Indotto da loro, credo, iniziai a parlare dei miei autori, di certe letture che avevo rimosse e tradite: Castaneda, Zolla, Eliade. Gli studi sugli sciamani delle pianure, sulle religioni non europee. Ero proiettato in un viaggio all’indietro nel tempo, di nuovo contemporaneo della mia giovinezza. Uno scoppio di risa sguaiate mi interruppe, come una doccia fredda. Nella baita sbevazzavano, schiamazzavano. Sibilai qualcosa di sprezzante.
«Non sono cattivi», mi rintuzzò lei, «Fanno molto rumore e pochi danni».
Aveva ragione: erano anche loro fra i bastonati dalla globalizzazione.
«Resta il fatto che non dev’essere molto gratificante suonare per un pubblico così», obiettai.
«Andiamo dove ci chiamano», replicò, molto semplicemente, «Dove hanno voglia di sentirci. Comunque il pubblico non è mai un problema. Quando suono sento me stessa, prima di tutto».
Così lei prese a ricambiare le mie confidenze di poco prima. Amava tutte le percussioni, in generale. L’amore supremo però, quello con cui si identificava, andava al tamburo. Al battito dei tamburi come pulsazione dell’Anima al centro del Mondo (la folle palpitazione mia e della volpe immobilizzata dai fari, mezz’ora prima). Aveva una voce strana, impersonale come un corso d’acqua o un animale parlante. Sembrava parte dei processi naturali intorno, come il sorgere della luna sopra le abetaie, adesso. Nel frattempo, all’interno qualcuno aveva riattivato i microfoni. Una testa, sbucata dalla porta sul retro, perlustrò il buio. Poi chiamò il suo nome, un nome mai sentito prima: Nicla.
«Dobbiamo riprendere a suonare...», il suo tono fatalista.
«Anch’io devo rimettermi in viaggio».
«Dove vai?».
La mia destinazione non era tanto lontana.
«È un bel posto. Ti piacerà», come per consolarmi.
«Quassù è tutta un’altra cosa... Prima ho quasi rischiato di mettere sotto una volpe. Era spuntata dal niente».
Assentì, si strinse nelle spalle come per dire che non era nulla, poteva succedere, nessun risentimento da parte sua.
«Mi chiamo Nicla», disse come temendo che non avessi compreso il nome. Nicla. Avevamo incrociato le strade, mi aveva fatto viaggiare all’indietro nel tempo. Che lo sapesse o no era una piccola sciamana. «Nicla. Scriverò di lei», mi dissi.
❞ Amava tutte le percussioni, in generale L’amore supremo però, quello con cui si identificava, andava al tamburo Al battito dei tamburi come pulsazione dell’Anima al centro del Mondo