Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Segni di risveglio Ma per Taranto serve fare di più
Agli inizi degli anni ’90 il primo Paese occidentale a riaprire i rapporti con la Cina dopo Tienanmen è l’Italia. La gratitudine cinese si sostanzia dell’invito a partecipare al raddoppio edilizio di Shanghai, alla collaborazione per ridurre l’impatto ambientale e la formazione di quadri manageriali.
Ma anche di quelli amministrativi. In ultimo, ma non per ultimo, i cinesi individuarono in Taranto l’hub europeo per le loro merci. In quest’ultimo caso, alle incapacità governative italiane si sommarono quelle degli enti locali. Il resto finì al macero grazie a Tangentopoli. Una pagina nera della storia del meridionalismo.
Si sa come è andata a finire. Atene ha avuto la rivincita sulla spartana Taranto ed oggi è il porto di interscambio tra Cina ed Europa.
Quindi il debito italiano nei confronti dell’aurea città della Magna Grecia , già ingente per questioni sanitarie, di salute e ambientali, va ben oltre l’altalenante gestione della siderurgia. Il capoluogo ionico ha consentito all’intero settore metalmeccanico italiano di crescere e affermarsi sui mercati del mondo. Nessun boom dell’automobile, dell’elettrodomestico, della componentistica, della meccanica fine sarebbe stato possibile senza Taranto. La città, per compensazione, avrebbe ben meritato di divenire uno dei più rilevanti porti europei.
I debiti vanno saldati. Più passa il tempo e più il debito cresce.
Non mi nascondo la complessità della questione, i suoi risvolti produttivi, finanziari, di assetto proprietario, giuridico, giudiziario e la congruità rispetto alle normative europee.
Tuttavia ritengo che Taranto è anche e soprattutto una grande questione etica, sulla quale si gioca la relazione tra una comunità cittadina - col suo variegato hinterland apulo-lucano - con lo Stato e l’Unione Europea. Nell’infuriare della politique politicienne che sta riducendo a chiacchiera questa prossima scadenza elettorale regionale, Taranto merita, invece, di essere assunta come banco di prova della capacità della Puglia di potersi guardare allo specchio senza provare imbarazzo. Ci sono troppe macerie in giro: quelle della chimica sono ancora ben visibili, per non dire dell’ulivicoltura a cui si aggiungono recenti macerie bancarie. A ben vedere, tutto facilmente prevedibile. Anzi, previsto ma lasciato marcire.
C’è tanta mancata crescita in Puglia, quella dimensione sospesa che faceva dire a Vittore Fiore (di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita) che lo sviluppo della Puglia ha le ali tarpate. Infine, la lunga fase della rendita sui lasciti della Prima Repubblica si è esaurita del tutto. A fronte di tutto questo mi pare che la perdita di qualche centinaio di milioni di fondi europei per l’agricoltura causata dall’improvvida gestione-Emiliano, sia appena un peccato veniale. Quello che è imperdonabile è l’assenza di una politica industriale, dell’agroindustria, del turismo come impresa.
L’assenza di un pensiero di sistema, di un’idea vincente e trainante, non tanto sul futuro (di quello sono piene le chiacchiere) ma sul presente. Questo presente! E prima di tutto il presente di Taranto che non può diventare un incerto futuro. Taranto merita una classe dirigente nazionale, regionale e locale degna di questo nome (e ci metto dentro anche la magistratura), all’altezza di quell’immenso debito che la comunità nazionale ha contratto nei suoi confronti.
Constato con piacere che il risveglio sul Canale navigabile ha una discreta matrice endogena che la nuova Regione Puglia, quella a cui affideremo le nostre legittime ambizioni e le speranze della terza decade del secolo, avrà il dovere di incrociare, registrare, elaborare e far propria chiamando a raccolta la Chiesa tarantina, il sistema ionico dell’istruzione e dell’Università, quello dell’impresa e del terziario. In proposito. I Giochi del Mediterraneo del 2026 a Taranto devono essere tutt’altro che “giochi” ma l’avvio di una riqualificazione urbanistica e dei servizi di cui la città ha urgente bisogno.