Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Per niente Candida
Cara Candida, siamo a neanche una settimana di «state a casa» forzato per via del coronavirus e mi sembra già di impazzire. La convivenza con mio marito (facciamo tutti e due smartworking) non era già delle più felici, ma negli ultimi anni eravamo stati entrambi abbastanza intelligenti da gestirla con cautela. Orari diversi, innanzitutto. Molte uscite libere, ognuno fuori coi propri amici o per incontri di lavoro. Weekend pieni, ognuno preso dai propri sport e dai propri impegni, o in compagnia di altre coppie di amici, così fa confonderci fra i tanti ed evitare le occasioni di scontro. In realtà, non andiamo d’accordo su niente. Se non sul fatto che, non andando d’accordo su niente, è meglio stare alla larga l’uno dall’altro. Non ce lo siamo mai detti. Mi stupisce che ora le parole mi vengano fuori con tanta chiarezza. Non le ho mai pronunciate neanche a me stessa. Non ti so dire il motivo. Forse è perché vengo da una famiglia litigiosa. I miei genitori alzavano sempre la voce, litigavano, discutevano per tutto. Io da bambina ne ho molto sofferto. Anche i genitori di mio marito non erano particolarmente amabili. Fatto sta che noi due cerchiamo sempre di glissare. Troviamo scuse per stare lontani. Ci scambiamo al massimo battute gelide a cui l’altro evita di rispondere perché altrimenti scoppierebbe l’inferno. Però, lui è un egoista. Le sue esigenze vengono sempre prima di quelle di chiunque altro. Ha i suoi orari, i suoi riti, le sue fisime. Ed è un criticone. Non gli sta mai bene non solo quello che faccio, ma quello che penso. Abbiamo lunghe, stizzite, discussioni su qualunque argomento. Di politica, di attualità, sui fatti degli amici… Su qualunque argomento lui deve dimostrare che io sbaglio e lui ha ragione. È uno stillicidio, una pentola a pressione che non facciamo esplodere mai, va a sapere perché. Il punto è questo: non sfociare mai nella lite furibonda. Sotto questa apparenza di finta civiltà, di guerra fredda, non resta niente della passione che ci ha unito, più di dieci anni fa. Resta, credo, la codardia. C’è la mancanza di coraggio di rompere una routine. Arrivo a dire che c’è la pigrizia: se penso che, lasciandoci, dovremmo cambiare casa (almeno uno di noi, e la casa dove stiamo è della sua di famiglia, non so se ci resterei io) mi viene male. Adesso c’è tutta una vita organizzata su misura di noi due: le coppie amiche della domenica e quelle con cui fare le vacanze, per esempio. A lungo, ci ha uniti il progetto di avere una famiglia, ma i figli non sono venuti e ora cosa ci lega? Paura di restare soli? Paura di ricominciare da capo? Non posso fare a meno in questi giorni di pensare a cose che per anni avevo sotto gli occhi e mi rifiutavo di nominare. Per anni, mi sono riempita la vita di impegni, per stare poco casa, incrociare poco mio marito e non pormi il problema. Adesso, un mese chiusa in casa con lui, mi sembra insostenibile.
Marzolina
Cara Marzolina, l’amore ai tempi del coronavirus, esattamente come il Covid19, uccide solo chi è già affetto da altre patologie. Quando usciremo da questa assurda, tragica emergenza, credo che fra le categorie più indaffarate ci saranno i terapisti di coppia e gli avvocati divorzisti. L’isolamento forzoso è per tanti di noi un momento della verità. Ti costringe a fare i conti con chi sei, con cosa hai costruito e con che cosa vuoi. Ho ricevuto altri messaggi e lettere di gente chiusa in casa coi suoi congiunti che crede di impazzire. Succede quando ci sono i figli e si è in quattro in uno spazio di colpo troppo piccolo, succede anche quando si è solo in due e allora, come nel vostro caso, si è costretti a guardarsi in faccia, come se ci si guardasse allo specchio. Ho letto storie anche di coppie disperate perché separate e impossibilitate a ricongiungersi, ma sono di più le coppie disperate perché costrette a ritrovarsi insieme 24 ore su 24. Lei e suo marito non siete gli unici, il che non significa che va tutto bene. Essere in folta compagnia non significa essere in buona compagnia. La pandemia, come una guerra, ci mette di fronte al rischio della morte ed è perciò la presa di coscienza di due cose: la caducità della vita e il senso della nostra vita. Sopravvivere o no non è
La foto di Candida Morvillo è di Giuseppe Di Piazza
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Corriere del Mezzogiorno Vico II San Nicola alla Dogana 9 80133 - Napoli abbastanza: bisogna sopravvivere uscendone migliori. Ci sono i reduci di guerra che non si sono mai ripresi dall’orrore e hanno vegetato per gli anni a venire e ci sono i nostri nonni che si sono rimboccati le maniche e hanno creato il boom economico, i nostri anni felici. Vinti o sconfitti al fronte, non importa, i nostri nonni hanno vinto perché hanno costruito un Paese migliore, una democrazia e più benessere e più diritti per tutti. Quando di fronte hai la morte, la vera vittoria non è scamparla, ma uscirne migliore. In questo caso, non stiamo in trincea, ma sul divano. Il che rende particolarmente ingloriosa la sconfitta. Tutto questo per dire, mestamente, che lei e suo marito vi detestate e ora è arrivato il vostro appuntamento col destino. Avete davanti almeno un paio di settimane per raccontarvi come e perché. Per provare a capire se c’è tregua possibile o se vi tocca arrendervi. La vita è strana e offre occasioni per crescere attraverso vie tortuose e infinite. Se non onori quell’opportunità, puoi continuare a vegetare, ma vivere è un’altra cosa. L’orrore e la paura di questi giorni ci ricordano che siamo chiamati a fare del nostro meglio per non sprecare gli anni che ci sono dati. Sono banale, lo so. Ma serve pure un moto d’orgoglio se tutto quello che ci viene chiesto è di fare i conti con noi stessi seduti su un comodo sofà. Fuori, c’è l’inferno delle corsie d’ospedale, ci sono le terapie intensive che scoppiano, i funerali senza cortei e messe, la desolazione delle saracinesche abbassate. Fuori c’è tutto questo e, dopo, dentro di noi, niente potrà più essere come prima. È come in un memorabile scambio di battute dento «Addio alle armi» di Ernst Hemingway: «Non credo più alla vittoria». «Neanch’io. Ma non credo alla sconfitta. Anche se sarebbe meglio». «A che cosa crede?». «Al sonno», dissi.