Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Nel tribunale off limits un presidio di nome Anna
Il Tribunale per i minori di Lecce è chiuso al pubblico. Ma non del tutto, una continuità esiste
Dopo quarant’anni Villa Bobò, a Lecce, torna ad essere quello che era già stato: un luogo d’isolamento. Uno dei tanti. Il Tribunale per i minorenni dal 2008 ha sede proprio in questo noto palazzo. Oggi, suo malgrado, è chiuso al pubblico benché continui a garantire i suoi servizi essenziali. E al suo interno c’è sempre una Anna che racconta la sua vita.
Abbiamo lanciato un appello a fotografi, scrittori, intellettuali: capiamo insieme come sta cambiando la nostra vita al tempo del coronavirus. Illustrando il progetto, Alessio Viola ha immaginato il suo esito: «La comunità degli scrittori e artisti si può riunire sulle pagine del Corriere del Mezzogiorno con lo scopo di offrire riflessioni che aiutino a passare la nottata». Oggi ospitiamo due contributi. Mandateci il vostro a redaz.ba@corrieredelmezzogiorno.it (oggetto: «Scrivere al tempo del Covid-19»).
All’improvviso, dopo quarant’anni, Villa Bobò torna ad essere quello che era già stato: un luogo d’isolamento. Uno dei tanti. Il Tribunale per i Minorenni, che dal 2008 ha sede a Lecce proprio in questo noto palazzo, di fronte alla splendida Porta Rudiae, che fu, in un tempo ormai lontano, convento, ospedale e casa di detenzione, è oggi, suo malgrado, chiuso al pubblico, benché continui a garantire i suoi servizi essenziali. Un luogo di giustizia chiuso al pubblico è un ossimoro. Mi ascolto per ore rispondere al telefono che: no, mi dispiace, non si può entrare, la giustizia è rinviata a data da destinarsi; noi restiamo dentro, ma voi fuori. Le udienze urgenti si terranno come il Dpcm vuole, ma con il dovuto distanziamento sociale. Tutte le altre forme di contatto umano sono sospese. Non venite, non bussate, non vi accalcate, tenetevi lontani.
Adesso è doloroso, ma necessario fermare l’ordinario muoversi del mondo e sembra impossibile liberarsi dall’agghiacciante stupore che ne consegue.
Nell’ufficio in cui lavoro da decenni, dunque, i pochi dipendenti che hanno scelto di restare in servizio se ne stanno chiusi nelle loro celle monacali. Il mio cellulare lancia segnali nello spazio attraverso la chat che abbiamo messo su tra colleghi: Prigionieri della Giustizia, l’abbiamo chiamata. Se il senso dello Stato è più forte, non possiamo non sentirci come un organismo assediato, eppure non molliamo la nostra postazione. Anche il senso del dovere è un’abitudine salutare e, forse, molti di noi starebbero peggio a casa. Ne scriva, dottorè, racconti agli altri ciò che accade qui dentro, mi chiedono. Lo dica a parole sue. Allora io osservo e ascolto. C’è l’eco tra i lunghi corridoi dell’ufficio, le voci risuonano imprecise, ridondanti dietro le mascherine; ogni parola dopo essere stata pronunciata resta solida e invisibile nell’aria; si riproduce rapidamente, dilaga. Sono scomparse parole come: accordo, mediazione, composizione, famiglia, prole, cosicché per raccontare il luogo in cui vivo oggi non posso più usare quelle a cui ero avvezza, quelle che amavo, ma altre, diverse, impreviste parole.
Quello della gestione del rischio è un lessico ostile, contagio, epidemia, triage, difficile da maneggiare. Allora provo a chiamare convenzionalmente Anna, la persona che presenzia, a turno con gli altri, il front office di un tribunale in questi giorni. C’è un’Anna in ogni ufficio pubblico; non è sempre la stessa, cambia di volta in volta il suo profilo, il sesso, l’età e lo stile, ma resta l’unico soggetto posto nella condizione di comunicare fisicamente con il pubblico che chiede giustizia ai tempi del virus. Racconta, dottorè, come vive Anna le sue ore di lavoro con guanti, mascherina e disinfettante, racconta a cosa serve. Anna non è un medico, né un infermiere, non salva vite, non merita di certo la riconoscenza dovuta a coloro che adesso stanno donando ogni energia per il bene di tutti. Anna non ha faccia, eppure sorride. Riceve moduli prestampati, indica strade alternative, consegna fotocopie, ascolta e verbalizza. La sua presenza è simbolica cura del bene pubblico.
Anna somiglia a quella figura professionale che, nel mondo del cinema, era detta continuity girl (un incarico minore, attribuito negli anni sessanta solo al gentil sesso e che, dopo le prime rivendicazioni femminili, cominciò a indicarsi più genericamente con il termine continuity supervisor), cioè colei o colui che sul set si occupa della coerenza estetica delle inquadrature. Si assicura con caparbia ostinazione che la realizzazione dello script segua una linea coerente, a prescindere dagli accadimenti raccontati: il bicchiere di whisky pieno sempre allo stesso livello, la treccia discinta della protagonista sciolta sempre nella stessa maniera, la sciarpa dell’eroe nel vento avvolta sempre con lo stesso numero di giri, gli stessi fiori nello stesso vaso, soprattutto quando la regia richiede che siano girate scene in progressione in giorni diversi, con umore diverso. Ecco a cosa serve Anna. Lui o lei, nell’isolamento di una giustizia senza utenti, è un presidio che ne cura la continuità. Un modo per dire: noi restiamo gli stessi, accada quel che accada e, dunque, teniamo duro.