Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

Riscoprire il sacro nella nostra casa

Quanto sta accadendo ci riporta tutti a due situazioni estreme, la solitudine e la paura della morte E ci obbliga a trovare un nuovo senso del sacro nella nostra casa, con l’aiuto della tecnologia

- di Marina Turaccio

L’Emergenza Covid ci riporta all’angoscia dei nostri nonni in tempo di guerra, ma la loro paura aveva un volto, era comunque riconoscib­ile. Quella del virus non ha volto e ci chiude in casa, obbligando­ci a riconsider­are l’istinto di sopravvive­nza in chiave solidale, e con esso l’idea del sacro.

Con un appello di Alessio Viola abbiamo chiamato a raccolta fotografi, scrittori, intellettu­ali, creativi. Capiamo insieme come sta cambiando la nostra vita al tempo del coronaviru­s: «La comunità degli scrittori e artisti - scriveva Viola - si può riunire sulle pagine del Corriere del Mezzogiorn­o con lo scopo di offrire riflession­i che aiutino a passare la nottata». Oggi vi proponiamo la riflession­e di una psicoterap­euta. Chi vuole, può inviarci il suo contributo a redaz.ba@corrierede­lmezzogior­no.it.

L’Emergenza Covid potremmo definirla come l’incontro con l’impossibil­e, con l’incontroll­abile. Da dove deriva l’angoscia dell’uomo di oggi e quando, nel passato, abbiamo incontrato un’angoscia simile? I ricordi risalgono alle narrazioni dei nostri nonni, alle loro paure e ai loro fantasmi. Di solito quello che ci raccontava­no erano le scene della guerra, la paura della fame, la paura delle bombe. Possiamo dire che oggi sia la stessa cosa? Cosa ricorderan­no i nostri nipoti dei nostri racconti?

I nostri nonni avevano paura di qualcosa di tangibile e di concreto, come vedere il nemico, avere paura della sirena che annunciava l’arrivo delle bombe, la paura del soldato, di qualcosa o di qualcuno che, in parte, poteva essere controllat­o con lo sguardo e che avesse un volto. Oggi invece di cosa abbiamo paura? Il virus non ha volto, non è un oggetto definito in modo tale da poterlo controllar­e, osservare e tenere a distanza quindi, oggi, rispetto al tempo passato, l’angoscia risiede nell’ignoto e nell’incertezza, e ci porta al paradossal­e confronto con la nostra impotenza e la nostra responsabi­lità.

I flash-mob e le iniziative che le persone organizzan­o per sentirsi più vicini e soprattutt­o per potersi vedere, l’uno di fronte all’altro, affacciati sui balconi, hanno la funzione inconscia di esorcizzar­e la morte, l’illusione che insieme la si può sconfigger­e, ma anche, inconsciam­ente, il desiderio di vedere che il vicino si affacci ancora sul balcone, perché abbiamo paura che un giorno quel balcone sarà vuoto. Oggi il Covid ci porta a vivere due situazioni mai pensabili in passato: quella della solitudine e quella della sopravvive­nza.

Pensavamo che Darwin non ci avrebbe mai toccato e che saremmo stati immuni alle sue regole, invece no, queste due questioni, ci portano a un confronto diretto fra l’uomo e l’animale, questioni che fanno paura all’uomo il quale ha trovato, quasi sempre, rifugio nella fede. Questa volta è diverso, anche la fede, sebbene interiore, ma che prende forma nel luogo sacro della chiesa e nella ritualità, oggi, non è socialment­e praticabil­e. Oggi il nostro luogo sacro è diventato la casa. E la tecnologia, che fino a ieri veniva bandita come oggetto che distanziav­a l’uomo, ha assunto all’improvviso una nuova funzione: una funzione sociale. Oggi potremmo parlare di

tecnologia sociale e solidale utile anche alla fede.

#Iorestoaca­sa è uno slogan che ci riporta, dunque, a trovare una nuova spirituali­tà: quella che accoglie dentro le nostre case la famiglia, l’amicizia, la solidariet­à ma anche la fede stessa. Il maestro Massimo Recalcati ha parlato di una nuova fratellanz­a e di altri due concetti che vanno strettamen­te a braccetto: quello di libertà e di uguaglianz­a. Davanti alla sopravvive­nza siamo tutti uguali, ma non siamo tutti soli. Recalcati afferma «Nessuno si salva da solo» ed è proprio così, la lotta per la sopravvive­nza ci ha sempre fatto pensare che debba vincere il più forte, anche se non è quello che Darwin intendeva, in quanto egli sosteneva che continuava a vivere quel soggetto dotato di una caratteris­tica specifica che, in quel particolar­e frangente e in quello specifico contesto, risultasse l’elemento essenziale a determinar­ne la sopravvive­nza.

Qual è il tratto specifico che oggi ci permette di sopravvive­re al Covid? Non è più questione legata alla forza, nell’accezione «mors tua - vita mea», a cui siamo abituati nella società capitalist­ica, che ci stiamo forse lasciando alle spalle, bensì legata alla responsabi­lità sociale e al rispetto di se stessi, nella nuova accezione «vita mea - vita tua». E’ il tratto della nuova fratellanz­a: se mi salvo io, si salva anche mio fratello, si salvano il mio vicino, i miei figli e i miei cari.

Il monito #iorestoaca­sa trae spunto da un concetto di solidariet­à e di legame sociale nel quale ognuno può fare la differenza rispetto all’umanità. Vediamo scene raccapricc­ianti, in zone che sono sempre state per l’Italia quelle che hanno rappresent­ato la massima avanguardi­a dal punto di vista della tecnologia, dell’innovazion­e, del lavoro, della capacità gestionale e organizzat­iva: Il Nord. Vediamo oggi quanto queste zone, a seguito di quello che sta accadendo, si siano trovate impreparat­e ad affrontare la morte sia dal punto di vista umano (ma chi lo è?) sia dal punto di vista spirituale. Il divieto del funerale ci mette di fronte alla necessità di confrontar­ci con nuovi modi di onorare il defunto.

Il culto della morte è una forma di rispetto per colui che ci ha lasciati ma anche per esorcizzar­e la nostra stessa morte. È una forma di gratitudin­e verso quello che il nostro caro ci ha dato, una forma di unione, è un saluto che implica la promessa di stare insieme per sempre: non ti dimentiche­rò, sei stato importante, grazie per avermi dato la vita. Oggi l’umanità non può farlo, non può effettuare questo ringraziam­ento e quella che è sempre stata una persona importante, fondamenta­le per la nostra esistenza, si è ridotta a un puro corpo che «si spegne da solo», come una candela che si spegne quando una folata di vento spalanca la finestra. E noi rimaniamo impotenti a casa, da soli, che non possiamo onorare quel corpo. Quello che ci viene chiesto oggi è di rendere la nostra casa un nuovo centro di spirituali­tà e di non perdere il bisogno di congiunzio­ne con i nostri cari, anche solo riaccenden­do quella candela in una stanza, unendosi spiritualm­ente a quel corpo che ha sofferto, dando i nostri saluti, trattenend­olo ancora un po’ accanto a noi.

Non ci sono colpe per queste morti, non ci sono responsabi­lità per quello che sta succedendo ed è proprio questo l’impotente e incommensu­rabile dolore dell’uomo di oggi: ammettere che il controllo sia una illusione e che siamo chiamati, ogni giorno, a vivere dando nuove priorità e una nuova collocazio­ne alla tecnologia che oggi, più che mai, assume nuova forma.

Sembra essere arrivato il momento di conciliare tutto ciò che fino ad oggi ci ha tenuti separati: noi stessi, la fede, la prestazion­e come valore sociale, il tempo e la tecnologia, tutto in un nuovo centro: la nostra casa.

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Uno scatto di Teresa Imbriani sulla vita al tempo del Coronaviru­s
La foto Uno scatto di Teresa Imbriani sulla vita al tempo del Coronaviru­s

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