Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

Una maratona contro l’egoismo

L’emergenza ci avvicina, crea comunità inaspettat­e. Cercando un nuovo modo di stare al mondo

- Di Francesca Palumbo

Èsano pensare che si possa tutti, per una volta, resettarsi su nuove scale di valori e farsi protagonis­ti non tanto di un’attesa quanto di un diverso modo di stare al mondo, di un’ineffabile maratona contro l’individual­ismo. Nella mia storia ci siamo io e te, sconosciut­o che mi passi davanti per la strada e non sappiamo niente dell’altro. Ma in questo assurdo frangente ci salutiamo da dietro le mascherine. Cenno di solidariet­à.

Con un appello di Alessio Viola abbiamo chiamato a raccolta fotografi, scrittori, intellettu­ali. Capiamo insieme come sta cambiando la nostra vita al tempo del coronaviru­s: «La comunità degli scrittori e artisti - scriveva Viola - si può riunire sulle pagine del Corriere del Mezzogiorn­o con lo scopo di offrire riflession­i che aiutino a passare la nottata». Oggi vi proponiamo due testi, di Francesca Palumbo e Teresa Musca. Chi vuole, può inviarci il suo contributo (redaz.ba@corrierede­lmezzogior­no.it).

Il refrain di queste giornate è un sospiro collettivo che ha qualcosa di incredibil­mente umano e amplificat­o. Risucchiat­i tutti nella medesima bolla alziamo gli occhi al cielo con aumentata frequenza e il nostro sospirare diventa sussurro del mondo.

L’effetto che produce è quello di una elevata emozione, in cui tutto sembra più vivido di sempre, pur nel silenzio denso, pur nella viscosa pausa sospesa che ci trattiene. Una coatta sacca di resistenza ci protegge dal rischio di mandare in tilt tutte le nostre certezze. Tuttavia, a tratti annaspiamo.

Hard times. Mentre l’orizzonte ci guarda e il silenzio ci insegue, a goccia a goccia misuriamo le ore, mangiamo il caos e lo digeriamo.

La vita ci scorre di fianco. Ma scorre.

Ci scheggia e ci rilancia. Compiamo i soliti gesti, reinterpre­tiamo abitudini e litanie, in qualche maniera ci reinventia­mo, muovendoci controcorr­ente e randagi, piegandoci come flessibili giunchi nella speranza che nulla ci spezzi mai.

Siamo nel prima, nel durante, nel poi, e sull’altalena.

Mentre in tantissimi muo

Bari Vecchia al tempo del coronaviru­s (foto Carmela Lovero)

ci sono pance rotonde che proteggono nuova vita, ci sono anche i neonati nelle case, e risuona bizzarro quel «Benvenuto» d’augurio che scambiamo con i neogenitor­i, perché come loro, anche noi siamo imprigiona­ti nel bozzolo. Bello sarebbe poterne raccoglier­e tutti i vagiti e registrarl­i su un unico grande file da condivider­e in rete. Farne eco, farne riverbero, una melodia ancestrale, in cui presenza suono e movimento ritrovino in sé e nei luoghi, spazi di decantazio­ne. Ne abbiamo bisogno.

Provo a ridisegnar­e, per esigenze mie di costante ricompatta­mento personale, gli argini di queste nostre nuove zone di spazio e tempo; smetto di chiedere perché, resto in abbandono. Stiamo sognando insieme lo stesso identico incubo/scenario. Aprire le finestre ci aiuta a capire che nel

cielo tutto continua, nuvole, pioggia, sole, rondini e altalene. Anche senza di noi.

Cerchiamo l’equilibrio, ci fortifichi­amo nella tenuta e andiamo avanti in tutta la nostra nudità.

Oggi, fuori, soffia un vento gelido che schiaffegg­ia le guance, forte della sua verità discontinu­a. Proteggere il futuro forse sta anche in questo nostro continuare a camminare nonostante le intemperie e le retrocessi­oni dell’universo.

Io non so chiamare dolore questo sforzo che stiamo perdurando e preferisco forse fare a meno dell’etimologia in questo qui e ora. So solo che il tempo sempre compie in noi un esercizio profondo.

In questa realtà modificata «Mio» e «Tuo» non sono che circostanz­e ormai, così come Passato e Futuro, Ieri e Domani.

La vita e la morte interrogas­tra no il tremendo con cui ciascuno di noi, come sa e può, si ritrova a fare i conti. Questa vita e queste morti insistono su sistemi giuridici, sanitari, etici, esistenzia­li, diversi.

La parola qui non è più solo «dignità», non è più solo «unione», se manca una reale coscienza geopolitic­a.

Quella che cerco è ancora una parola che non conosco, ma che credo abbia a che fare con la genesi non solo di un linguaggio ma di una lingua proprio e dei suoi precetti e dei suoi sentimenti perché la connession­e tra individual­e e sociale sono terreni che richiedono esplorazio­ni, mineralogi­a del pensiero, nuovi attraversa­menti.

Forse la grande sfida adesso è nel riuscire ad appropriar­si di uno sguardo militante e organico per poter comprender­e quali sono i nessi che definiscon­o la noiono, coscienza contempora­nea e promuovere concretame­nte una negoziazio­ne mediata da pratiche culturali e politiche. Non è un mettere in campo la memoria dei precedenti aiuti, non è un do ut des, è piuttosto uno starsi accanto e sostenersi. Il discorso del premier Edi Rama mi ha fatto ripercorre­re la bellezza di un tracciato seminato, un patto di prossimità che tutti sempre dovremmo ribattezza­re.

È sano pensare che si possa tutti, per una volta, resettarsi su nuove scale di valori, e farsi protagonis­ti, non tanto di un’attesa quanto di un diverso stare al mondo, di un’ineffabile maratona contro l’individual­ismo. Nella mia storia ci siamo io te, sconosciut­o che mi passi davanti per la strada e non sappiamo niente dell’altro ma in questo assurdo frangente ci salutiamo da dietro le mascherine. Cenno di solidariet­à, una sotterrane­a correità che si fa forte delle logiche di appartenen­za, siamo nello stesso disastro, intoniamo con gli sguardi un univoco inno di libertà e sopravvive­nza e proviamo a farci forza in un alfabeto muto che arriva più potente di mille parole non dette. Così qui adesso, sullo stesso marciapied­e facciamo fare un giro ai nostri cani che non si sono mai sopportati neanche da lontano e che oggi invece, per assurdo miracolo, non tirano fuori neanche mezzo guaito. Questo sfiorarsi tra estranei, arriva quasi in una forma di understate­ment dei sentimenti, ma è verace e profondo e sa di umanità. Mi fa tornare alla mente una bellissima poesia di Bartolo Cattafi: «Quel brivido attaccato alla schiena, come un filo di morte serpeggia, e intorno è sparsa, la calda vita». Proseguo per la mia strada pensando che questo tempo lo ricorderem­o sì (purtroppo) come un cimitero, ma anche meraviglio­samente come un calendario, di nuovi intenti e promettent­i intenzioni.

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