Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
«Noi, al lavoro nei campi senza guanti né mascherine»
Viaggio nelle campagne del Foggiano dove i terreni sono in gran parte vuoti. Le testimonianze dei pochi braccianti rimasti: «Abbiamo paura»
«Siamo in pochi a lavorare perché abbiamo paura del coronavirus, lavoriamo senza guanti né mascherine, se spendessimo i soldi anche per le mascherine che cosa ci resterebbe?». Sono le parole di Dakari, 37 anni, senegalese, uno dei pochi braccianti che ogni giorno va a lavorare nelle campagne di Capitanata. Dove rimane la piaga del caporalato.
«Per questa emergenza del Coronavirus mancano i braccianti e io rischio di non poter piantare i pomodori nei miei terreni così come avevo previsto. E’ un danno incalcolabile». Il grido di allarme giunge da Vincenzo un piccolo imprenditore agricolo proprietario di una trentina di ettari tra Foggia e San Severo. «Molti – continua a raccontarci – utilizzano i macchinari per la produzione dei pomodori, ma qui in provincia, la carenza di braccianti si fa sentire soprattutto per il ‘trapianto’ del pomodoro e la raccolta di asparagi».
Un allarme giustificato quello di Vincenzo. Basta percorrere la statale Foggia-San Severo per vedere la desolasenza zione delle campagne, che un tempo erano popolate di braccianti al lavoro. Ci infiliamo in una delle stradine secondarie della statale 16, alla ricerca di qualche lavoratore agricolo. Ma sono davvero pochi.
Dakari, 37 anni senegalese, da cinque anni vive nel Gran Ghetto, l’insediamento che si trova tra le campagne di Rignano Garganico e San Severo. «Siamo in pochi a lavorare – ci racconta mentre pianta il pomodoro – perché abbiamo paura del Coronavirus. Lavoriamo senza mascherina e
❞ Dakari Samo senza mascherina e senza guanti. Se spendessimo soldi anche per questo cosa resterebbe
guanti. Se spendessimo soldi anche per le mascherine cosa ci resterebbe? Molti di noi non vogliono spostarsi. Anche perché se ci muoviamo in auto c’è il rischio di essere fermati dalla polizia. Quindi chi vuole, va nelle campagne a piedi o con le biciclette».
Sei regolare? Gli chiediamo. «Sono in attesa di un permesso di soggiorno», risponde. Quindi non hai un regolare contratto, continuiamo a chiedergli. Non risponde ma aggiunge che per lui «l’importante ora è lavorare. Il prola prietario mi paga 5 ore all’ora e ho solo dieci minuti di pausa per mangiare un panino». «Non ho nessun caporale se è questo che vuoi sapere»: conclude facendomi capire che non siamo più graditi.
È strano vedere le campagne del Foggiano senza braccianti. Questo è il periodo della raccolta degli asparagi, del trapianto dei pomodori: attività che in passato davano lavoro, regolare ed irregolare, a migliaia di braccianti stranieri. Secondo alcuni dati in provincia di Foggia ci sarebbero circa 45mila braccianti,
metà dei quali stranieri. Tredicimila sarebbero bulgari e rumeni e ottomila circa gli africani. Con lo scoppio della pandemia e con il lockdown circa 8mila braccianti stagionali rumeni e bulgari sono rimasti bloccati nei loro paesi. Degli ottomila africani in pochissimi sono tornati nelle campagne a lavorare. Un po’ per paura del contagio. Un po’, secondo qualcuno, per la paura dei caporali di essere scoperti.
«Certo che ci sono ancora i kapò, o i caporali come li chiamate voi»: racconta Ebo, un 26enne del Mali che incontriamo fermo ad una piazzola di sosta sulla statale 16. «È difficile poter lavorare senza qualcuno che ti trova la campagna dove andare. A volte gli stessi proprietari non vogliono prenderci per non avere problemi con noi, e per poter trattare solo con una persona. Molto spesso non sappiamo neanche chi siano i proprietari per chi lavoriamo».
Proprio una settimana fa i carabinieri hanno arrestato 4
persone, tre imprenditori agricoli e un caporale, per intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Tra gli arrestati anche due imprenditori già coinvolti la scorsa estate in un’altra operazione anti caporalato.
Chi invece lavora sono i migranti che vivono a Casa Sankara la struttura di accoglienza che si trova a qualche chilometro da San Severo. «Nonostante l’emergenza io lavoro regolarmente», ci dice Ebo, senegalese di 31 anni che incontriamo all’ingresso della struttura dove sta tornando dopo una giornata di lavoro. «Da quando sono qui a Casa Sankara – continua - non ho avuto rapporti con alcun caporale. Invece, quando vivevo nella pista di Borgo Mezzanone, ero costretto a sottostare a quello che mi offrivano i caporali. Ma certo che ci sono ancora gli sfruttatori e conosco molti amici che lavorano, purtroppo, solo grazie a loro. Si sono sfruttati, sottopagati. Ma se sei irregolare questo è l’unico modo per lavorare».