Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
La scienza e la politica all’epoca di Netflix
Se dico che dopo la pioggia tornerà il sole, versione naturalistica di «andrà tutto bene», esprimo una speranza e una banalità. Ma se scrivo «la quiete dopo la tempesta» sono considerato uno dei più grandi poeti italiani. Se affermo che il Plaquenil è un ottimo farmaco per i reumatismi, entro nella categoria di medici e farmacisti di fiducia. Se lo annuncio come il rimedio più efficace contro il Covid 19, non pericoloso, quindi praticabile, posso diventare uno scienziato televisivo più famoso di Fiorello e le farmacie, come sta avvenendo in questi giorni, si svuotano del prodotto.
Viviamo un momento di smarrimento individuale e collettivo. L’epidemia ha messo in discussione una concezione della vita cui ci eravamo ingenuamente assuefatti, la direzione retta del progresso sociale, scientifico e persino biologico, esteso ad aree sempre più grandi dell’umanità. Senza passi indietro. Ci ritroviamo a riflettere sulle nostre fragilità : di esseri umani, di habitat, della scienza e della medicina.
Mai come in questi mesi di paura per la nostra salute, di privazione delle nostre libertà e angoscia economica per il futuro, avremmo invece bisogno di certezze scientifiche, di scelte politiche rigorose, di informazioni corrette.
Ma, al culmine dell’emergenza, scienza e politica si confondono come in una fiction di Netflix, in cui — episodio dopo episodio — si susseguono colpi di scena, entrano in gioco nuovi protagonisti, si ingarbugliano le trame, si lascia il pubblico con il fiato sospeso perché cominci la visione della stagione successiva.
Mentre si scambiano ruoli e responsabilità, scienza e politica comunicano un messaggio semplificato, presentato come originale, spesso come nuovo, come il meglio sul mercato, salvo contraddire il precedente. Lo scienziato ottiene visibilità in quanto comunica con l’autorevolezza del ruolo l’opinabile validità di studi e analisi. Il politico ha consenso (vedi i sondaggi a favore del premier Conte) quanto più motiva le sue scelte appoggiandosi al «parere degli esperti», i quali — come i tecnici prestati di tanto in tanto alla politica scaduta di prestigio — risultano per forza più credibili. Il populista, che è la variante impazzita della politica, riceve applausi quanto più scalda gli animi con argomenti uguali e contrari, evocando complotti americani o cinesi, utilità o inefficacia dei vaccini, speculazioni dell’industria farmaceutica o rimedi omeopatici e invocando alternativamente sacrifici necessari o difesa di diritti individuali e collettivi compressi dall’emergenza.
Il paradosso è che la semplificazione del messaggio, anziché rassicurare, aumenta confusione e smarrimento. In questo senso, l’approccio e la sensibilità popolare non sono cambiate rispetto alle epidemie dei secoli precedenti: inseguiamo dogmi e rivelazioni salvifiche, vediamo untori e organizziamo cacce agli untori, quando avremmo bisogno di un approccio pragmatico sia da parte della scienza, sia da parte della politica, a ruoli possibilmente ben distinti.
Un approccio pragmatico significa dire con chiarezza che un’epidemia è un fenomeno intrinsecamente eterogeneo. La gravità e la contagiosità del virus variano a seconda dei luoghi, delle condizioni climatiche, dello stato di salute dell’individuo, delle classi di età, della situazione socio economica, delle strutture sanitarie, delle misure di contenimento e, in ultima analisi, dell’efficacia di un farmaco (da sperimentare) e di un vaccino (da scoprire).
Una politica autorevole dovrebbe tenere conto di questa eterogeneità e regolarsi di conseguenza, non delegando la responsabilità della decisione alla scienza (talvolta usata persino come alibi) nè lasciandosi condizionare dalla cacofonia di regioni, amministrazioni locali, associazioni, categorie economiche divise fra il partito della libera uscita e il partito del lockdown. Due partiti che usano alternativamente messaggi di facile presa: meglio morire di virus che di fame, la salute prima dell’economia, poli opposti di un conflitto fra tutele individuali e interessi della collettività che soltanto la buona politica può risolvere.
L’informazione a sua volta non rassicura. I media e la rete riportano migliaia di notizie (e «scoperte») in cui è impossibile orientarsi e si finisce per prestare fede a ciò che ci fa piacere leggere. Intellettuali e commentatori, sulla base della propria cerchia amicale o di followers, pretendono di raccontare l’evoluzione della società, dei comportamenti, delle relazioni, della nostra condizione psicologica e affettiva al tempo del coronavirus. E infatti già si annunciano per l’autunno fiction sull’epidemia. Basterebbe rendersi conto che i «social» ci hanno già calato da anni nella distanza sociale, senza aspettare il Covid 19.
Il risultato della semplificazione cacofonica potrebbe essere il tutto indistinto, la confusione sovrana che accentua lo smarrimento collettivo. Con il risultato che ognuno potrebbe decidere alla fine di comportarsi a modo suo, secondo buon senso. E non è detto che sia la soluzione peggiore.