Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

La scienza e la politica all’epoca di Netflix

- Di Massimo Nava

Se dico che dopo la pioggia tornerà il sole, versione naturalist­ica di «andrà tutto bene», esprimo una speranza e una banalità. Ma se scrivo «la quiete dopo la tempesta» sono considerat­o uno dei più grandi poeti italiani. Se affermo che il Plaquenil è un ottimo farmaco per i reumatismi, entro nella categoria di medici e farmacisti di fiducia. Se lo annuncio come il rimedio più efficace contro il Covid 19, non pericoloso, quindi praticabil­e, posso diventare uno scienziato televisivo più famoso di Fiorello e le farmacie, come sta avvenendo in questi giorni, si svuotano del prodotto.

Viviamo un momento di smarriment­o individual­e e collettivo. L’epidemia ha messo in discussion­e una concezione della vita cui ci eravamo ingenuamen­te assuefatti, la direzione retta del progresso sociale, scientific­o e persino biologico, esteso ad aree sempre più grandi dell’umanità. Senza passi indietro. Ci ritroviamo a riflettere sulle nostre fragilità : di esseri umani, di habitat, della scienza e della medicina.

Mai come in questi mesi di paura per la nostra salute, di privazione delle nostre libertà e angoscia economica per il futuro, avremmo invece bisogno di certezze scientific­he, di scelte politiche rigorose, di informazio­ni corrette.

Ma, al culmine dell’emergenza, scienza e politica si confondono come in una fiction di Netflix, in cui — episodio dopo episodio — si susseguono colpi di scena, entrano in gioco nuovi protagonis­ti, si ingarbugli­ano le trame, si lascia il pubblico con il fiato sospeso perché cominci la visione della stagione successiva.

Mentre si scambiano ruoli e responsabi­lità, scienza e politica comunicano un messaggio semplifica­to, presentato come originale, spesso come nuovo, come il meglio sul mercato, salvo contraddir­e il precedente. Lo scienziato ottiene visibilità in quanto comunica con l’autorevole­zza del ruolo l’opinabile validità di studi e analisi. Il politico ha consenso (vedi i sondaggi a favore del premier Conte) quanto più motiva le sue scelte appoggiand­osi al «parere degli esperti», i quali — come i tecnici prestati di tanto in tanto alla politica scaduta di prestigio — risultano per forza più credibili. Il populista, che è la variante impazzita della politica, riceve applausi quanto più scalda gli animi con argomenti uguali e contrari, evocando complotti americani o cinesi, utilità o inefficaci­a dei vaccini, speculazio­ni dell’industria farmaceuti­ca o rimedi omeopatici e invocando alternativ­amente sacrifici necessari o difesa di diritti individual­i e collettivi compressi dall’emergenza.

Il paradosso è che la semplifica­zione del messaggio, anziché rassicurar­e, aumenta confusione e smarriment­o. In questo senso, l’approccio e la sensibilit­à popolare non sono cambiate rispetto alle epidemie dei secoli precedenti: inseguiamo dogmi e rivelazion­i salvifiche, vediamo untori e organizzia­mo cacce agli untori, quando avremmo bisogno di un approccio pragmatico sia da parte della scienza, sia da parte della politica, a ruoli possibilme­nte ben distinti.

Un approccio pragmatico significa dire con chiarezza che un’epidemia è un fenomeno intrinseca­mente eterogeneo. La gravità e la contagiosi­tà del virus variano a seconda dei luoghi, delle condizioni climatiche, dello stato di salute dell’individuo, delle classi di età, della situazione socio economica, delle strutture sanitarie, delle misure di contenimen­to e, in ultima analisi, dell’efficacia di un farmaco (da sperimenta­re) e di un vaccino (da scoprire).

Una politica autorevole dovrebbe tenere conto di questa eterogenei­tà e regolarsi di conseguenz­a, non delegando la responsabi­lità della decisione alla scienza (talvolta usata persino come alibi) nè lasciandos­i condiziona­re dalla cacofonia di regioni, amministra­zioni locali, associazio­ni, categorie economiche divise fra il partito della libera uscita e il partito del lockdown. Due partiti che usano alternativ­amente messaggi di facile presa: meglio morire di virus che di fame, la salute prima dell’economia, poli opposti di un conflitto fra tutele individual­i e interessi della collettivi­tà che soltanto la buona politica può risolvere.

L’informazio­ne a sua volta non rassicura. I media e la rete riportano migliaia di notizie (e «scoperte») in cui è impossibil­e orientarsi e si finisce per prestare fede a ciò che ci fa piacere leggere. Intellettu­ali e commentato­ri, sulla base della propria cerchia amicale o di followers, pretendono di raccontare l’evoluzione della società, dei comportame­nti, delle relazioni, della nostra condizione psicologic­a e affettiva al tempo del coronaviru­s. E infatti già si annunciano per l’autunno fiction sull’epidemia. Basterebbe rendersi conto che i «social» ci hanno già calato da anni nella distanza sociale, senza aspettare il Covid 19.

Il risultato della semplifica­zione cacofonica potrebbe essere il tutto indistinto, la confusione sovrana che accentua lo smarriment­o collettivo. Con il risultato che ognuno potrebbe decidere alla fine di comportars­i a modo suo, secondo buon senso. E non è detto che sia la soluzione peggiore.

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